
“Da qualche parte, qualcosa di incredibile attende di essere conosciuto.”
Carl Sagan
In questa frase del famoso scienziato americano, astrobiologo e astrofisico, si può riassumere benissimo l’essenza profonda del gioco di cui sto per parlare. La voglia, anzi direi quasi l’esigenza innata di esplorare e scoprire, accompagna l’uomo sin da quando è apparso sulla terra. Vari motivi possono spingere l’essere umano a viaggiare verso regioni diverse e più o meno lontane da quelle di origine: economici, militari, di sopravvivenza o di pura conoscenza. A partire dai fenici e dai greci, che nell’età classica si muovono per lo più lungo le coste del mediterraneo, passando per i romani che si espansero per gran parte dell’Europa, Africa e Medio Oriente, fino ad arrivare ai celeberrimi Cristoforo Colombo, Marco Polo, James Cook e David Livingstone che incarnano l’essenza stessa dell’esploratore, tutte le epoche sono state percorse dalle scoperte di nuovi territori e con essi nuovi animali, piante, funghi, batteri. Nella seconda metà del 19° sec. si afferma un nuovo campo di esplorazione, quello delle ricerche oceanografiche, sulle caratteristiche dei fondi marini. In questo campo il progresso tecnico è molto rapido; si passa dai 923 m di profondità nel 1930 agli 10.916 m nella Fossa delle Marianne nel 1960, massima profondità marina conosciuta ad oggi. Appena un anno dopo, il lancio della capsula spaziale con il russo Gagarin a bordo ha aperto all’esplorazione lo spazio circumterrestre e successivamente quello extraterrestre fino allo sbarco, nel 1969, dei primi uomini sulla superficie lunare.

Se pensiamo che persino un regista famoso come James Cameron e un miliardario texano di nome Victor Vescovo si sono spinti nelle profondità degli abissi e che tra qualche anno un turista giapponese viaggerà intorno alla luna con il razzo spaziale di Elon Musk, possiamo capire quanto ancora l’uomo sia mosso dal sacro fuoco dell’esplorazione (pecunia permettendo). Per noi comuni mortali che abbiamo ancora voglia di esplorare luoghi sconosciuti non resta che vivere esperienze interattive multimediali. Per pochi euro ho acquistato su Nintendo Switch uno dei giochi che meglio in questi ultimi anni ha appagato la mia voglia di esplorazione… (rullo di tamburi) In Other Waters. Se qualcuno è rimasto scioccato dalla mia scelta a discapito di un qualsiasi open world dalla grafica ultra patinata (The Witcher 3? The Legend of Zelda: Breath of the Wild?) che nell’esplorazione libera e nella vastità della mappa hanno proprio il loro punto di forza, proverò a spiegare il perché In Other Waters con il suo minimalismo è un’opera acuta, curata nei minimi dettagli, arcaica e innovativa allo stesso tempo e che soddisfa appieno la voglia di scoperta e conoscenza.

Per prima cosa ormai da tempo gioco solo e soltanto titoli indie, ma indie veramente, preferibilmente sviluppati da una sola persona o da un team piccolissimo. In questo caso parliamo del “one man studio” Jump Over the Age fondato dallo scrittore, designer e artista inglese Gareth Damian Martin. Dopo anni nel giornalismo videoludico, nella grafica e nella letteratura sperimentale, Gareth mette tutte queste qualità nella sua prima opera.
Seconda cosa, non ho più il tempo né la voglia di girovagare tra quest principali e secondarie che mi fanno calare la palpebra per ottanta-cento-centocinquanta ore. In Other Waters si porta a termine in circa 8 ore e se poi lo si vuole completare al 100% ne serviranno forse altrettante.
Terza e fondamentale cosa (in vista anche della deriva verso il realismo grafico a cui la next gen ci abituerà facendoci addirittura scegliere il tipo di peli pubici) si fa lavorare molto l’immaginazione. Per molti potrebbe essere un difetto, ma non per chi come me è cresciuto con le avventure testuali o per chi è abituato a leggere molto. Facciamola lavorare questa fantasia ca..o! Chi giocherà In Other Waters, avrà una sua e solo sua idea ricostruita nel proprio immaginario.
Quarto, il lavoro fatto da Gareth nel costruire un mondo extraterrestre popolato da vita aliena è a dir poco encomiabile. Come un novello Darwin ha ricostruito un manuale di tassonomia biologica che sembra uscito veramente da un pianeta alieno esistente.
Quinto e ultimo motivo, c’è un’eleganza estetica, sonora e grafica senza pari nella sua unicità. Un’atmosfera rarefatta, organizzata, tecnica, con scelte cromatiche, delle font, degli elementi grafici di una semplicità disarmante ma assolutamente pregevole e contestualizzata. Mi ha ricordato tanto un piccolo libro che anch’esso ha che fare con le mappe: Atlante Tascabile delle Isole Remote di Judith Schalansky.

Ma cos’è esattamente In Other Waters?
Essendo un gioco che nella classificazione e nella definizione ha uno dei suoi punti di forza, ho provato ad incasellarlo anche io: è un walking simulator e un’avventura testuale con una UI minimale, dove impersoniamo l’IA di una scafandro guidato da una xenobiologa di nome Ellery Vas alla ricerca della sua amica Minae Nomura nelle profondità dell’oceano sul pianeta Gliese 667Cc.
Attraverso il radar, lo strumento principale che ci permette di muovere lo scafandro da noi comandato, potremo esplorare le varie porzioni della mappa del pianeta per raccogliere esemplari biologici da classificare e per raggiungere luoghi importanti ai fini del prosieguo della narrazione. Proprio la mappa e i simboli su di essa sono forse l’aspetto più importante e caratterizzante del gioco. Infatti non vedremo mai il pianeta con occhi umani, il fondale marino, le rocce, le caverne, e tutte le forme di vita che lo popolano. Bensì solo una rappresentazione grafica.

Nel monumentale libro La storia del mondo in dodici mappe di Jerry Brotton, l’autore si interroga sull’importanza e la necessità delle mappe.
L’impulso a disegnare mappe e carte geografiche è un istinto umano fondamentale e immortale. Dove saremmo senza? La risposta ovvia è, naturalmente, “saremmo perduti”, ma le carte non servono solo a capire come fare ad andare da un luogo a un altro: forniscono risposte a molte altre domande. Fin dalla prima infanzia, definiamo noi stessi in rapporto al mondo fisico in cui viviamo elaborando informazioni relative allo spazio. Gli psicologi chiamano questa attività, lo strumento mentale grazie al quale gli individui acquisiscono, catalogano e richiamano informazioni sul proprio ambiente spaziale, “mappatura cognitiva”. Attraverso la mappatura cognitiva ciascuno di noi si differenzia e si definisce spazialmente rispetto al mondo smisurato, terrificante e inconoscibile che sta “fuori”.
È proprio questa la sensazione che si prova giocando In Other Waters. Un misto di horror vacui, paura per l’ignoto e il vuoto, e allo stesso tempo la necessità di andare avanti. Ci sentiamo quasi in dovere di esplorare ogni singolo angolo della mappa, raccogliere e catalogare tutte le specie possibili oltre a far dipanare la storia di Ellery e Minae e dello stesso pianeta Gliese 667Cc. Solo grazie alle parole di Ellery, che con descrizioni scientifiche e dettagliate, riusciremo ad avere un’idea precisa di quello che la mappa invece stilizza e semplifica. Ma pur sempre solo nella nostra mente. Non avremo mai un’immagine o una foto in tutto il gioco. In questo il titolo è arcaico, ritorna alle origini delle avventure testuali, a quel Colossal Cave Adventure che nel 1976 ricreava attraverso le parole parte della topografia della Mammoth Cave nel Kentucky.

Oltre l’aspetto estetico e di game design, In other waters eccelle anche dal punto di vista narrativo, che si muove su vari livelli. È in primis un viaggio archeologico nelle profondità marine alla scoperta di un segreto ben celato. È allo stesso tempo una delicata storia d’amore conclusa tra due ricercatrici e scienziate isolate negli oceani ghiacciati di un pianeta alieno. È il rapporto intimo che si sviluppa tra Ellery e l’IA della sua tuta, unico interlocutore a cui porre domande e con cui confidarsi. È una riflessione sullo sfruttamento delle risorse del pianeta e le multinazionali senza scrupoli. È la voglia di conoscenza e di scoperta che spinge da sempre l’essere umano ad intraprendere viaggi rischiosi. È la necessità di sapere chi siamo e conoscere le nostre radici mettendo a rischio persino la propria vita. È un inevitabile presa di coscienza che la vita cresce e si sviluppa nelle condizioni più impensabili ed estreme. Interi e variegati ecosistemi convivono in luoghi inospitali dove sembra impossibile qualsiasi forma di vita. Anche l’essere umano alla fine cambia per adattarsi e a volte non resta che accettare il cambiamento.

Ho giocato In Other Waters esclusivamente in modalità portatile, di notte, nel letto, mentre il resto della mia famiglia dormiva (d’altronde finchè non ricomincerà la scuola è l’unico momento libero che ho per farlo, grazie ai due figli e alla moglie. Ti prego Covid non chiudere ancora le scuole!). La vicinanza dello schermo, le cuffie nelle orecchie, il silenzio profondo, il buio, contribuiscono a rendere l’esperienza immersiva e intima. Il mio consiglio è di avvicinarsi a questo gioco solo e soltanto in questo modo. Altrimenti si perderebbe gran parte della magia. E di magia questo gioco ne ha tanta da regalare.
Lo hai descritto magnificamente! È come se lo avessi giocato mentre leggevo. È vero, mi ha ricordato certe prime avventure “grafiche” (con grafica scarna o praticamente assente) eppure dall’effetto evocativo grazie al grande “lavoro”di immaginazione da parte del videogiocatore. Tuttavia ti dirò: pure concordando con te che non amo le ore trascorse in quest e sub-quest seminate a spaglio in un open world (scegline uno a caso nel mazzo), trovo che nell’attuale generazione alcune storie abbiano un impatto grazie alla grafica e all’impianto tecnico: HellBlade per citare un titolo alquanto breve; per la serie invece “ci butto 50 ore” Death Stranding con un’interpretazione degli attori e un multiplayer asincrono fenomenali.
Amo i videogiochi come questi indie che racconti, li gioco e trovo che abbiano colmato un vuoto di “contenuti” o almeno di proposta di nuovi contenuti, ma amo – fin dalle origini – l’effetto “Non è possibile!”(rumore di mascella inferiore che tocca il pavimento) 😂😂😂
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Il mio problema è che la mascella inferiore mi si abbassa sempre meno. Sarà un mio e solo mio problema ma l’aspetto tecnico/grafico/realistico in un videogioco è quello che mi interessa di meno. Ho giocato Hellblade e non Death Stranding ma credo che nel tempo ricorderò con più forza la storia di Ellery Vas che quella di Senua (senza nulla togliere però alla validità del titolo di Ninja theory). Pur non visualizzando alcuna espressione facciale, alcun ambiente ricostruito nei minimi dettagli, non impegnandomi in nessun combattimento, ho trovato In other Waters davvero “immersivo” e coinvolgente solo grazie all’uso delle parole e dell’esplorazione. In questo è un capolavoro. Poi certo che la spettacolarità dei titoli AAA o AA (ora si parla anche di AAAA!) ha molto più fascino soprattutto su un pubblico non abituato alla lettura e a far “faticare” l’immaginazione. Ma non è il tuo caso 😉
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Discorso interessante. I videogiochi raccontano una storia (quando hanno questo obiettivo) in modo differente dai libri. Nei migliori indie si stimola l’esercizio dell’immaginazione tipico della lettura dei libri. Nei videogiochi però l’elemento nuovo e differente è l’interazione, “vivere” la storia in prima persona tanto che quando nei videogiochi si è potuto rappresentare la visuale in soggettiva c’è stato un “boom” (nuovi generi, aumento di videogiocatori e del mercato, nuove tecniche).
L’aspetto “esteriore” (video e audio) è quindi un aspetto essenziale per l’evoluzione del medium. Come è accaduto nel cinema, dal muto e bianco e nero. I videogiochi hanno da poco passato la fase del “bianco e nero”😜
Gli indie ci ricordano che con il “bianco e nero” e l’uso di buone idee e tanta passione, si può fare a meno della grafica spacca-mascella. Ma senza i “tripla A” non ci sarebbe un sufficiente “spazio economico” affinché il medium continui a evolvere (e trainare altre attività, schede grafiche, processori eccetera)
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