WHITE NIGHT

VUOI TROVARE LE OMBRE? PROVA AD ACCENDERE LA LUCE [cit. da Kingdom Hearts]

L’immaginazione, in contrapposizione all’astrazione concettuale e all’analisi della materia, è un fiore che sboccia nella notte, simbolicamente. Dove la penombra accenna forme appena abbozzate, ecco l’immaginazione intervenire a completare, colorare, sfumare, animare. Solidale con l’ombra, l’immaginazione sfrutta i favori del crepuscolo nel negare una visione chiara, offrendosi come un tramite che attinge all’interiorità per comporre l’esteriorità, in un matrimonio tra incompletezze che ha nella provvisorietà il suo maggior fascino.

In Elogio della notte Claudio Marucchi riflette sul rapporto che l’ombra e le tenebre hanno nella contemporaneità sempre più dominata dalla “tirannia del diurno” il cui scopo è purificazione, igiene psicologica e luce a tutti i costi. Ma come ben sappiamo non c’è luce senza oscurità.

Partendo dalla fascinazione per la notte, le ombre, l’oscurità, la luna e tutte le allegorie che queste si portano dietro, i ragazzi del piccolo studio francese OSome hanno lanciato nel 2015 White Night. Anche se il titolo è molto azzeccato (sia inteso come “notte in bianco” che come dicotomia cromatica tra il bianco e il nero) si sarebbe potuto tranquillamente intitolare Alone in the dark se questo titolo non fosse già occupato da quel seminale gioco sviluppato da Infogrames nel lontanissimo 1992 e che ha dato il via poi a tutti i survival horror. Sì, perché “solo nel buio” si addice perfettamente a quello che White Night in realtà è. Sia da un punto di vista visivo, che come modus operandi. Un’esperienza claustrofobica all’interno di una decadente dimora americana degli anni ’30 infestata da fantasmi.

Impersoneremo un uomo sulla trentina, vestito con trench e cappello, che dopo un incidente in macchina dovuto ad una strana visione, cerca aiuto nella casa più vicina, che guarda caso è vecchia, buia come la pece e infestata di fantasmi. L’unica fonte di luce su cui possiamo fare affidamento è una scatola di fiammiferi presa da un jazz club di nome Smoke and Mirrors. Per fortuna nella casa troveremo altre scatole di fiammiferi (segno di una frequentazione assidua del locale) ma bisognerà farne un uso moderato. Sì, perché per avventurarci nel buio più totale dovremo tenere sempre accesa una piccola fiammella, o una candela, o un fuoco, o una lampada, pena la cattura da parte di qualche fantasma. Le meccaniche del gioco sono quelle classiche di un’avventura. Il più delle volte si tratta di prendere una chiave per aprire una porta o accendere una lampada per scacciare un fantasma che ci impedisce di passare. Ma gli impianti di questa villa non sono proprio a norma e spesso non funzionano per cui bisognerà ingegnarsi.

Da un punto di vista puramente estetico White Night è assolutamente fantastico e coerente con la storia che vuole raccontare. Un bianco e nero netto, senza sfumature. Le inquadrature fisse, che si rifanno ai film dell’espressionismo tedesco, permettono al personaggio in terza persona di muoversi nello spazio fino ad uscire dalla visuale per rientrare da un’altra angolazione. Esattamente come in Alone in the dark ventotto anni fa! La gestione della telecamera fissa, per quanto artisticamente efficace e d’effetto, a volte risulta scomoda e mi sono ritrovato più volte a provare a girare la visuale con lo stick destro!

La storia si dipana nell’arco di una sola notte, ma attraverso i vari documenti sparsi nella casa (diari, giornali, foto) possiamo ricostruire la lunga e tragica storia della famiglia Vesper che ci ha abitato negli anni. È proprio qui il punto di forza di White night. L’intreccio narrativo è sorprendentemente curato, i personaggi psicologicamente ben delineati, lo sfondo storico ricostruito con dovizia di particolari. Gli eventi infatti si svolgono in uno dei periodi più bui della storia mondiale, ovvero la crisi del 1929, conosciuta anche come la Grande depressione. Attraverso gli estratti di giornale e i diari dei personaggi del gioco, si può ricreare e rivivere, anche se solo attraverso le parole, quel clima di incertezza e disperazione che ha caratterizzato quell’epoca. Il rifugio nell’alcol come via di fuga, il divario economico-sociale tra pochi ricchi e il popolo, la perdita di lavoro e la chiusura delle fabbriche: questi temi reali sono lo sfondo ideale per raccontare una storia cupa a cui si intreccia un filone soprannaturale, una storia di fantasmi. Il jazz e la musica sono un altro elemento caratterizzante che accompagna tutta la narrazione. Senza svelare troppo della storia, basti dire che la coprotagonista è il fantasma di una cantante di origini norvegesi di nome Selena dalla voce celestiale.

Addentrarsi nel buio di villa Vesper è sicuramente un’esperienza appagante per chi ama un certo tipo di letteratura noir e di film espressionisti tedeschi degli anni ’20. Oppure se l’effetto “nostalgia canaglia” di Alone in the dark ha un richiamo particolarmente forte. Per gli altri potrebbe risultare un’esperienza frustrante o semplicistica e non al passo coi tempi. Gli enigmi sono piuttosto accessibili, mentre la difficoltà principale risulta proprio nel muoversi al buio e memorizzare la planimetria della casa, anche se il pregio maggiore di tutta la produzione non è la sfida bensì la narrazione.

Adatto a: amanti di film noir ambientati in America negli anni ’30Non adatto a: chi ama l’azione e crede che la narrazione sia secondaria al gameplay

VOTO: 8

Giocato e finito in 6 ore su Switch – disponibile per Microsoft Windows · iOS · macOS · Android · Linux · Nintendo Switch · PlayStation 4 · Xbox One