Di videogiochi, arte e la necessità di uccidere il passato.

Nell’anno appena concluso ho giocato due titoli apparentemente molto diversi eppure molto simili. Uno è in bianco e nero, ha una grafica pixellosa e infantile, oserei dire finanche bruttina; l’altro è straripante di colori vividi da fare quasi male agli occhi, è pieno di effetti speciali e grafica sfavillante. Uno parla di pittura (la seconda arte) mentre l’altro parla di musica (la quarta arte), entrambi sfruttando il medium dei videogiochi (la decima arte). Uno ha parecchi enigmi da risolvere, una mappa piuttosto vasta da esplorare, tanti segreti da scovare e quest da portare a termine; l’altro scorre via in maniera lineare, c’è poco da fare se non correre da sinistra a destra, leggere i dialoghi e premere qualche pulsante, lasciando il fruitore poco più che un mero spettatore. Uno lascia al giocatore la libertà di esprimere la propria vena creativa, facendosi partecipe insieme agli autori del compito di (ri)dare vita a un mondo; l’altro spiattella in faccia a chi gioca tutta una serie di mondi allucinati ricchi di dettagli. Uno innova e rinnova il gameplay continuamente; l’altro ci rinuncia sin dall’inizio riducendo il tutto ad un incrocio tra un walking simulator e un Simon. Allora cos’hanno in comune questi due giochi?

La risposta è: SUDA51 e Kill the past. Una delle tematiche più amate dal game designer giapponese Goichi Suda (aka SUDA51) nelle sue produzioni videoludiche, sin dagli esordi, è proprio quella di uccidere il passato. Sotto il termine Kill the past rientrano tutta una serie di giochi che vanno a formare la spina dorsale della produzione di Suda in oltre 27 anni di carriera. Condividono un universo dove alcuni temi, simboli personaggi sono ricorrenti. I suoi protagonisti devono liberarsi da quel giogo che li tiene incollati ad un presente che inesorabilmente li farà scivolare nella follia. Il passato deve essere sempre affrontato, sfidato, accettato e mai negato.

Il pennello e la chitarra

Pizza (anche se è possibile cambiare nome e scegliere il genere non binario), il cane antropomorfo protagonista di Chicory: A Colorful Tale, entra casualmente in possesso di un pennello magico. L’ultima persona ad aver posseduto il pennello è stata Chicory, la lepre pittrice che abita nella torre dove Pizza va a fare le pulizie. Chicory non riusciva più a sostenere il peso del pennello, ad essere creativa a tutti i costi, schiacciata dall’ansia di dover produrre arte. E così i colori del mondo di Picnic se ne sono andati, tutto è rimasto in bianco e nero e alberi oscuri hanno cominciato a rimpiazzare il bosco. Si scoprirà che proprio il pennello è la causa di tutto, a causa del pesante retaggio culturale di tutti gli artisti precedenti che lo hanno posseduto. L’unico modo per liberarsene è distruggerlo. Uccidere il passato.

Chicory: A Colorful Tale (Fonte: press kit)

Attraverso questa potente metafora e attraverso il gameplay stesso che è una summa di citazioni di capolavori videoludici di tutte le epoche (Zelda: A Link to the Past e Undertale su tutti) Greg Lobanov paga sicuramente il pegno verso un passato che lo ha influenzato, ma allo stesso tempo lo uccide, lo metabolizza e dalle ceneri costruisce qualcosa di assolutamente unico e personale. L’arte non può prescindere dal passato, ma se ne deve liberare per generare qualcosa di nuovo. La creatività non è materia facile da gestire, soprattutto quando si è raggiunto un discreto successo (Wandersong) e ci sono alte aspettative. Creare qualcosa dal nulla significa doversi confrontare con mostri sacri, intoccabili. Il fallimento è dietro l’angolo e questo genera tensione, ansia, e può persino sfociare nella depressione. Può portare via tutti i colori dal proprio mondo. In medio stat virtus, quasi sempre: serve avere la conoscenza, ma anche un po’ di incoscienza; e soprattutto il piacere di fare e di prendersi il proprio tempo, seguire il proprio ritmo. Senza questo non si va da nessuna parte e ci si ritrova bloccati come Chicory.

Più o meno la stessa sorte capita al protagonista di The Artful Escape. Francis è un ragazzo che ha già il destino segnato come musicista folk in quanto nipote del leggendario zio Johnson Vendetti (una leggera somiglianza con Bob Dylan?), il quale ha venduto milioni di dischi. Ma Francis non è convinto fino in fondo di percorrere quella strada già spianata che lo vedrebbe strimpellare accordi su una chitarra acustica in una cittadina decadente di provincia. I suoi sogni volano molto più in alto e da appassionato di fantascienza e psichedelia si vede meglio nei panni del “personaggio da palcoscenico più elaborato che il mondo abbia mai visto”. Quindi si imbarcherà in un viaggio allucinatorio e lisergico che ha come fine principale quello di uccidere suo zio (almeno metaforicamente, visto che è già morto) e di liberare la sua vera essenza. Svestirà i panni del musicista folk, imbraccerà una chitarra elettrica e adotterà un nuovo look (una leggera somiglianza con Ziggy Stardust?). Alla fine del viaggio Francis avrà acquisito la consapevolezza di ciò che vuole diventare veramente, lasciandosi indietro il proprio passato.

Ecco come Chicory: A colorful tale The Artful Escape, per quanto estremamente diversi, quasi antitetici, sono accomunati da un messaggio di fondo che poi è lo stesso di tutta la poetica di SUDA51. Kill the past.

The Artful Escape (Fonte: press kit)

Altri passati

A pensarci bene lo scorso anno ho giocato anche un altro piccolo e purtroppo sottovalutato videogioco che brucia letteralmente il passato sotto forma di scatole piene di oggetti personali da portare sopra un falò. Si tratta di Bonfire Peaks, un brillante quanto punitivo puzzle game di Corey Martin. Il muto protagonista del titolo si muove in un overworld onirico e weird popolato da oggetti la cui presenza risulta inspiegabile fino alla fine. Quello che conta è che piano piano si crea nella nostra mente una narrazione, entriamo in sintonia con il personaggio, che di falò in falò, di puzzle in puzzle scala la montagna, inerpicandosi in un paesaggio dai colori autunnali che a sua volta è un macro puzzle. Entriamo in empatia con lui e ci chiediamo perché ha questo bisogno di bruciare le cose. È un gioco molto intimo e crepuscolare e lo si percepisce non appena ci si mettono sopra le mani, ma è solo salendo e scalando la montagna che ci si addentra nei ricordi più reconditi e dolorosi. È come una seduta psicoanalitica, al termine della quale ci si sente meglio; liberati.

E ancora un’altra piccola gemma, molto più rilassante ma non meno interessante per il modo originale di raccontare una storia. In Unpacking si sistemano gli oggetti appena tirati fuori dagli scatoloni dopo vari traslochi. Con il passare degli anni ci accorgeremo che alcuni effetti personali vengono persistentemente portati dietro (il peluche rosa), altri si perderanno per strada, ricordo di una vita passata che non c’è più. Vedremo ad esempio avvicendarsi diverse console, che con il tempo vengono schiacciate sotto il pesante macigno dell’obsolescenza. Oppure vivremo tutto il passaggio analogico-digitale subito dalla musica: dalle musicassette, ai cd, ai lettori mp3. Come novelli Marie Kondo bisognerà fare ordine e pulizia, sbarazzarsi dell’inutile e portare con sé solo ciò che è essenziale.

Anche se in maniera ancora più metaforica, astratta e non sempre a fuoco, Moncage parla del passato e della necessità di rompere la gabbia che ci tiene chiusi in una palude stagnante fatta di traumi bellici, abuso di alcol e farmaci. Con un gameplay innovativo dove le illusioni ottiche la fanno da padrone, mette il giocatore di fronte ad alcuni enigmi molto ben strutturati e allo stesso tempo racconta una piccola storia familiare.

Unpacking (Fonte: press kit)

Ai videogiochi, quelli belli

Ci siamo lasciati alle spalle un anno non certo semplice. Credo non sia casuale l’uscita di così tanti titoli con la voglia di spezzare le catene che ci legano al passato, di buttarsi tutto alle spalle, ricominciare da capo, cambiare aria. Sono titoli molto intimi, personali, che però parlano al pubblico in maniera universale, a volte senza neanche aver bisogno di parole, solo attraverso gli oggetti, gli ambienti, le metafore.

In un saggio del 1917 intitolato L’arte come procedimento, Viktor Šklovskij scriveva:

Così la vita scompare trasformandosi in nulla. L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra. […] Ed ecco che per restituire il senso della vita, per «sentire» gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione» e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti.

I giochi sopra parlano di arte (i primi due) e di oggetti come visione (gli altri tre) e dell’estrema necessità che abbiamo di tornare a goderne. Ne abbiamo tutti bisogno. Intanto possiamo cominciare proprio da questi videogiochi.

Questo articolo è apparso su ludicamag.com

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Bonfire peaks, ovvero quando il falò non serve solo a strimpellare la chitarra e pomiciare

“Libertà è un rogo ben congegnato.”

Michele Serra, Le cose che bruciano

Nel romanzo di qualche anno fa appena citato Michele Serra narrava le vicende di Attilio che, abbandonata una fallimentare carriera politica, si ritira in montagna. Qui incombono però troppi ricordi, riportati alla mente dalle centinaia di oggetti accatastati in soffitta e in ogni dove. L’unico modo per disfarsene è bruciarli, ridurli in cenere, per alleggerirsi definitivamente di tutte quelle inutili cose che non fanno altro che ricordargli il passato rubando spazio al presente e al futuro. E allora via con il rogo, la pira, il falò. 

Ma il falò non serve solo a cancellare i ricordi. Intorno ad un falò ci si riunisce anche per scaldarsi, preparare del cibo, suonare, cantare, riposare, raccontare delle storie. Il crepitio del fuoco, le scintille che scoppiettano, la calda luce che illumina la notte e allunga le ombre riescono a creare una situazione piuttosto unica di intimità che favorisce il dialogo e l’apertura. Si creano spesso le condizioni ideali per tirare fuori argomenti che in altri luoghi non ci si sognerebbe mai di esporre.

I videogiochi hanno fatto grande uso dei falò sin dagli esordi del medium fino ad arrivare ai giorni nostri.

Memorabile ad esempio il falò di Melee Island in Monkey Island, ad oggi una delle rappresentazioni più belle di sempre considerando i limiti tecnici dell’epoca. Il riverbero del fuoco sulle pietre, il cielo stellato, i toni e le sfumature del blu hanno fatto sognare i giocatori (tra cui me) del 1990. 

E’ ancora un falò dove si riunisce il gruppo di Chrono Trigger (1995) dopo 400 anni e si discute di temi “piccoli piccoli” come ricordi, morte, rimpianti.  

The last campfire, una deliziosa e recente avventura di Hello Games, ha addirittura il falò nel titolo e lo usa come forte ed efficace metafora narrativa. 

Anche Madeleine, in quel capolavoro che è Celeste, riscaldata dalle fiamme di un falò in un momento di pausa durante la sua pericolosa ascesa, ammette chiaramente di fronte a poco più di uno sconosciuto di avere delle difficoltà, cosa che fino a quel momento aveva tenuto nascosta e repressa.

In Where the water tastes like wine il falò è onnipresente. In questa bizzarra avventura narrativa ci ritroveremo a girovagare negli Stati Uniti d’America della Grande Depressione alla ricerca di storie da raccontare e da usare come valuta di scambio. E dove trovarle se non davanti ad un falò? 

Troviamo ancora i falò in produzioni ben più importanti ma con ruoli diversi. In Horizon Zero Dawn servono per gli spostamenti veloci, in Breath of the Wild, Link li usa per riposare e per cucinare, infine in Dark Souls svolgono la funzione di checkpoint e livellamento del personaggio. 

L’ultimissimo gioco che mi è capitato fortuitamente tra le mani fa del falò il suo punto cardine e si è rivelato essere uno dei migliori e più originali puzzle game dai tempi di Baba is you. Sto parlando di Bonfire Peaks. Non voglio stare a spiegare le meccaniche del gioco, basti sapere che tutto parte da una semplice quanto efficace premessa: bruciare i propri possedimenti contenuti in una cassa. L’obiettivo è infatti quello di portare la cassa piena di oggetti sopra al falò per vedere andare in fumo il contenuto. Bisognerà ripetere questa azione centinaia di volte, via via con metodi e in modi sempre più complicati. 

Quello che invece mi piace mettere in evidenza è l’aspetto artistico e narrativo del gioco. Da un puzzle game nudo e crudo come questo non ci si aspetterebbe nessun tipo di narrazione. E infatti il protagonista non spiccica una parola. E non c’è una linea di testo se non il titolo del livello. Ma la narrazione ambientale è molto forte ed è forse il motivo principale che ci spinge a scalare la montagna, al di là della sfida intellettiva (che di per sé è già molto soddisfacente e gratificante). Con un sapiente uso della voxel art, il programmatore Corey Martin è come se avesse svuotato e sparpagliato tutte le cose accatastate nella sua soffitta/mente e le avesse gettate sul sentiero. Potremmo perciò incontrare ad un certo punto un letto di ospedale o un pianoforte, poco importa. Quello che colpisce di questa produzione è che piano piano si crea nella nostra mente una narrazione, entriamo in sintonia con il personaggio, che di falò in falò, di puzzle in puzzle scala la montagna, si inerpica in un paesaggio dai colori autunnali che a sua volta è un macro puzzle. Empatizziamo con questo omino e ci chiediamo perché ha questo bisogno di bruciare le cose. In questo senso Bonfire Peaks eccelle in entrambe gli aspetti. Quello ludico e di sfida è ben supportato da una narrazione ambientale di grande spessore. E’ un gioco molto intimo e crepuscolare e lo si percepisce non appena ci si mettono le mani, ma è solo salendo e scalando la montagna che ci si addentra nei ricordi più reconditi e dolorosi. E’ come una seduta psicoanalitica, al termine della quale ci si sente meglio e liberati.

Ho fatto qualche domanda a Corey Martin per cercare di entrare ancora di più nel suo affascinante mondo, soprattutto a livello artistico e tematico.

GM. Si percepisce in Bonfire Peaks una certa melanconia sia per l’uso di alcune tonalità di colori che per la patina invecchiata delle texture. Ha un aspetto molto autunnale, di qualcosa che sta per finire (dopotutto l’autunno segna la fine dell’estate, la stagione della spensieratezza). Perché?

CM. Il gioco sostanzialmente ha a che fare con il lasciar andare le cose e nell’accettare l’impermanenza, la nostalgia, il decadimento, il dolore. Ho cercato di fare delle scelte che servissero a quei temi e alla mia esperienza personale di essi. Non c’è una storia nel senso stretto del termine, quindi ho cercato di esprimere queste idee attraverso l’ambiente e l’atmosfera del gioco.

GM. Ho provato in tutti i modi di capire cosa contenesse la cassa da bruciare. Puoi dirmi cosa c’è dentro?

CM. Sta a te decidere! Qualunque sia la tua interpretazione del gioco, questa è corretta.

GM. Il fuoco ha un potere catartico e liberatorio che ci invita a ricominciare. Ne sei affascinato?

CM. Haha non lo so. Mi piacciono i fuochi piccoli e sotto controllo.

GM. Quanta energia ha richiesto fare un gioco così? Si percepisce una maniacale cura del dettaglio e che nulla è lasciato al caso.

CM. Mi fa piacere sentirtelo dire! Ci sono voluti 3 anni, perciò parecchio tempo ed energie. All’inizio avevo intenzione di fare un gioco molto più piccolo, ma poi abbiamo continuato a trovare nuove idee da esplorare. Spero che la gente apprezzi l’esplorazione del gioco.

A mio avviso un grande puzzle game si esplicita quando la soluzione è palesemente mostrata davanti ai propri occhi e già nella tua mente si crea tutto il processo risolutivo. Solo che quando lo si va ad attuare si scopre che quello è il percorso sbagliato e che bisogna usare il pensiero laterale, riformulare la propria teoria, uscire dai binari. Corey Martin è un grande illusionista, come Arvi Teikari di Baba is you. Molto spesso i due autori hanno disegnato i livelli per farci credere che la soluzione sia palese, ma il più delle volte è solo un inganno. La soluzione è sempre molto ben celata dietro un velo di pura ingegnosità. Ci vorranno molte prove prima superare alcuni livelli e la curva di difficoltà è piuttosto alta e si impenna subito, ma la soddisfazione di portare a termine un livello dopo ore (si ore!) di ragionamenti e prove è impareggiabile. Se consideriamo poi che anche il comparto artistico e narrativo non sono da meno, possiamo dire che siamo di fronte ad un piccolo capolavoro del genere.

Non credo che Corey Martin abbia mai letto il romanzo di Michele Serra, ma questo passaggio riassume benissimo quello che Bonfire Peaks è.

“Questo è l’elenco sommario dei materiali destinati al falò, aggiornato alle ore sei e trenta di questa mattina di giugno. Al primo posto , incontrastate regine, le otto chiavarine sfondate che dovrei far riparare e reimpagliare da almeno una ventina d’anni. […] Sono sedie scadenti, con le gambe guaste, però “di famiglia”. Formula che contiene, alla massima potenza, il micidiale ricatto della memoria, quello che per onorare il passato, ostruisce il presente.”

Michele Serra, Le cose che bruciano