DUE PAROLE SULLE ESCLUSIVE
Nel mio vocabolario personale, quello che uso tutti i giorni con le persone con cui mi relaziono, la parola esclusivo potrebbe tranquillamente non esistere. Non mi piace usarla e non mi piace che la usino gli altri. Etimologicamente escludere deriva dal latino excludere ovvero chiudere fuori. Ora proviamo a fare un gioco (d’altronde qui su Outcast si parla di giochi no?) e pensare la nostra vita solo in termini di esclusività.
Ci svegliamo nel nostro esclusivo attico con vista unica su un’altrettanto esclusiva spiaggia circondati da mobili di design a tiratura limitata. Facciamo colazione con un raro e unico caffè kopi luwak, i cui chicchi sono cagati da una specie di gatto selvatico. Poi saliamo sulla nostra auto customizzata con un motivo camouflage pensato apposta per noi da uno dei designer più à la page per andare in palestra dove il nostro personal trainer ha impostato un nuovo allenamento su misura. Ci concediamo un pranzo in un ristorante per sole 20 persone che ha le prenotazioni confermate fino al 2030 ma essendo amici del pluripremiato chef stellato, quest’ultimo ci trova un posticino nella saletta esclusiva con pareti di mogano. Nel pomeriggio, andiamo a ritirare il nostro paio di scarpe su misura e poi ci guardiamo un film su Redcarpethomecinema alla modica cifra di duemilacinquecento Euro. Per finire in bellezza la giornata ci scateniamo nell’esclusivo privè di una discoteca prima di andare a letto con un gigolò o una escort di lusso.
Ecco, ora che avete provato questa vertigine dell’esclusività cosa ne pensate? Siete soddisfatti? Tenere fuori i più per gratificare se stessi o poche altre persone è quello che avete sempre desiderato? Perché pagare un film duemilacinquecento euro quando aspettando un po’ di tempo lo si può vedere per pochi euro? Per non parlare di una tazzina di caffè che arriva a costare quindici Euro. Nel tempo, sbagliando anche sulla mia pelle, ho capito che il concetto di esclusività applicato ai prodotti o ai luoghi viene spesso usato come uno degli ennesimi trucchetti del marketing per vendere a caro prezzo oggetti o esperienze che altrimenti risulterebbero molto più accessibili. Basta usare le paroline magiche esclusivo, luxury, personal, custom, privè, limited, (come vedete la maggior parte in lingua straniera perché fa figo) ed il gioco è fatto. Il consumatore si sente appagato, gratificato, ed ha trovato una anche una valida giustificazione per aver “investito” bene i suoi soldi. Io ho sempre creduto in una società più inclusiva possibile, dove all’ “io me lo posso permettere e tu no” preferisco il “godiamone tutti”. E allora ben vengano i mobili Ikea, le magliette OVS, e le automobili Volkswagen (almeno nel suo significato letterale). Chi insegue l’esclusività è colui che vuole rimanere fuori da una realtà molto più ampia, precludendosi gran parte delle esperienze. Più che chiudere fuori gli altri, chiude se stesso dentro un piccolo mondo autocelebrativo.
Nel mondo dei videogame le cose non cambiano molto. La cosiddetta console war nata all’inizio degli anni Novanta (che trova nella spudorata campagna pubblicitaria ideata da Michael Katz per lanciare in America il Sega Genesis il suo punto più alto e la scintilla che scatenò tutto) si porta dietro ancora oggi i suoi strascichi.
“Lo scontro tra Nintendo e Sega fu spietato e senza tregua. Oltre ad altissimi profitti, generò anche una guerra industriale combattuta su tutti i fronti: dai salotti alle scuole, dagli uffici esecutivi al Congresso. Fu un conflitto unico e senza esclusione di colpi, che mise fratelli contro fratelli, ragazzi contro adulti, Sonic contro Mario e Stati Uniti contro Giappone!”
(dal libro Console Wars di Blake J. Harris)
Le esclusive a mio modesto parere fanno solo male alla crescita del medium videoludico in termini di espansione e tensione verso quella maturità artistica alla quale dovrebbero aspirare. Se allarghiamo lo sguardo verso altri settori, la letteratura non è stata mai esclusiva, le biblioteche da sempre rendono accessibili le opere a tutti i fruitori che ne fanno richiesta. Anche il cinema può essere goduto da chiunque abbia la modesta capacità economica di acquistare un biglietto oppure in maniera gratuita sulla Tv generalista o, pagando un piccolo contributo, sulle varie piattaforme di streaming (anche se qui le esclusive giocano ancora un ruolo importante per accaparrarsi clienti). Pensiamo anche alla pittura che dai musei (comunque accessibili a tutti, a volte anche gratuitamente) sempre più spesso fa le sue incursioni nelle strade, sui muri delle città. Solo l’opera lirica, nel suo immobilismo elitario che esclude e tiene volutamente fuori con la sua cultura talmente alta e inaccessibile, non ha saputo innovarsi, tanto che non interessa più a nessuno. Quanta più gente può accedere ad una produzione, tanto meglio è.
In quest’ottica sempre più software house considerate di culto nel panorama indie fanno uscire i loro giochi su dispositivi mobili. Basti pensare all’ultima creazione di Jenova Chen, fondatore di thatgamecompany, che ha pubblicato il suo Sky: Figli della luce prima su iOS poi su Android e a seguire arriverà su Switch. Anche la meno conosciuta The Chinese Room (Dear Esther, Everybody’s gone to the rapture) ha lanciato da poco il suo nuovo titolo Little Orpheus su iOS, MacOS e tvOS. Oppure pensiamo al publisher Annapurna (Florence, Gorogoa, If Found…) che fa uscire spesso i propri titoli prima su piattaforme mobile e poi su console. Questa apertura verso il mercato mobile da parte di programmatori che solitamente lavoravano su console è indicativo di un allargamento verso un pubblico più ampio ed una maturità di contenuti che fino ad ora era riservata solo ad una specifica fetta di pubblico. Per questo credo che non c’è futuro nella separazione, nel diabolico atto di escludere. È nell’inclusione, nell’unione, nell’integrazione che sta il futuro. È ora di non fomentare più la console war e la logica delle esclusive se vogliamo che i videogiochi crescano come le altri arti.
La maggior parte dei videogiocatori alla parola esclusiva associa titoli roboanti come The last of us Part II, Ghost of Tsushima, Halo Infinite, Forza Horizon, Zelda Breath of the Wild e Mario Odyssey. Io invece alla parola esclusiva/o, nel significato etimologico di chiudere fuori, associo un gioco piccolo piccolo che è Papers, please. Il lavoro del designer Lucas Pope si concentra sul concetto di chiudere fuori e lo fa facendoci impersonare un ufficiale doganale che dentro il suo piccolo stanzino deve controllare i documenti dei vari cittadini e decidere velocemente se far entrare (includere) o tenere fuori (escludere) il soggetto di turno. Il gioco nella sua apparente semplicità, all’inizio può sembrare solo un simulatore della vita lavorativa di un ispettore di frontiera e della sua ripetitiva giornata fatta di passaporti, fototessere, date di scadenza e timbri ma col passare del tempo ci pone di fronte a dilemmi morali importanti. I personaggi che si presentano nel nostro ufficio non solo ci porgono i loro visti e passaporti, ma possono anche parlarci e raccontare la loro storia. Da semplice attività burocratica, seppur ludicizzata, il nostro lavoro ci pone di fronte a diversi dilemmi morali. Uno degli esempi più citati di Papers, please è quello dell’uomo che, pur avendo i documenti in ordine, ci implora di fare passare la donna dietro di lui, che è sua moglie, che invece non è in regola. Cosa facciamo? Facciamo passare l’uomo e respingiamo la moglie? Oppure chiudiamo un occhio e li facciamo ricongiungere, rischiando però un’infrazione che ci può costare una detrazione della paga giornaliera? Dal nostro stipendio infatti dipenderanno anche le sorti della nostra famiglia: moglie, figlio, suocera e zio. Senza un adeguato stipendio non riusciremo a comprare cibo, riscaldare l’appartamento, pagare l’affitto o curare un nostro familiare quando si ammalerà, decidendone di fatto le sorti. Chiusi nella nostra weberiana “gabbia d’acciaio” siamo quindi chiamati a delle scelte morali che realmente richiedono il coinvolgimento emotivo del giocatore. Il futuro dell’immigrato che si presenta davanti a noi è letteralmente appeso al timbro verde (approved) o rosso (denied) che decidiamo di stampare sul passaporto. Escludere o includere? A voi la scelta. Io ho già espresso la mia opinione.
Questo articolo è apparso anche su Outcast.it con un’operazione di editing letterario a cura di Andrea Peduzzi.