Gerda: a Flame in Winter, niente sarà più come prima

Dicembre 1939. Un fisarmonicista suona un allegro motivetto nella stazione di Tinglev, nello Jutland meridionale, Danimarca. Nevica, i tetti e le strade sono imbiancate, dai comignoli delle case esce un denso fumo bianco. In lontananza un treno annuncia il suo arrivo. Gerda, di ritorno da Copenhagen dove si è diplomata come infermiera, scende dalla carrozza e ad aspettarla c’è Anders, il suo fidanzato. Come regalo anticipato di Natale, Anders le porge una sciarpa rossa. Gerda la indossa subito a mo’ di fazzoletto per ripararsi dalla neve e dal vento gelido. Questa sciarpa la accompagnerà per tutte le sei/sette ore che ci vorranno per giungere alla conclusione (o meglio a una delle tante conclusioni) della sua intensa storia di speranza, disperazione, rabbia, frustrazione, disagio che solo un evento terribile e inimmaginabile può suscitare: la guerra.

Stiamo parlando della seconda guerra mondiale, quella che molta letteratura, cinema, fumetti e per ultimo i videogiochi hanno già cercato di raccontare. Questi ultimi in particolare, forti della loro natura interattiva e immersiva, lo hanno fatto spesso in maniera spettacolarizzata più che spettacolare, portandoci nel mezzo dell’azione, a combattere con i soldati e ad usare fucili, pistole o bombe a mano; facendoci pilotare aerei militari o sottomarini nelle profondità del mare. Gerda: A flame in winter ci fa vestire invece i panni di questa giovane e un po’ ingenua infermiera, figlia di padre tedesco e madre danese. Lontano dalle zone in cui si combatte, in un paesino di confine, dove ha trovato lavoro presso la clinica del dottore di famiglia, le uniche cose che deve curare sono raffreddori e contusioni dovute alle palle di neve che i bambini si lanciano. Si è sposata con Anders e si sono trasferiti in una casa tutta loro. La storia vera e propria prende il via venerdì 2 Febbraio del 1945 e non durerà che sei giorni. Ma in questo piccolo fazzoletto di tempo Gerda si troverà a prendere decisioni così importanti per la sua vita e quella di altre persone, che niente sarà più come prima.

I tedeschi hanno invaso lo Jutland meridionale e Tinglev è stata occupata. Il cibo scarseggia, si è creato un mercato di contrabbando, la Resistenza cerca di cacciare gli invasori con azioni sovversive, la Gestapo reprime, usando anche metodi brutali, ogni forma di aggregazione sospetta. In questo clima non ci si può fidare più di nessuno. Gerda deve muoversi con cautela, cercando diplomaticamente di non offendere alcuna fazione e di guadagnarsi la fiducia di tutti. Ma siamo sicuri che questa sia la scelta giusta?

Bisogna prendere posizione o rimanere neutrali? D’altronde gli sviluppatori di Portaplay non a caso hanno caratterizzato Gerda come una “mezzosangue” di origine sia danese che tedesca. In questo modo si trova spesso a dover gestire a fatica le sue due origini e cercare di non scontentare nessuno. Sta a noi giocatori attraverso le nostre scelte decidere come influenzare il corso della Storia (volutamente con la “S” maiuscola) ma i rimorsi sono sempre dietro l’angolo.

In una pagina del suo diario Gerda scriverà:

“Sembrava che gli eventi degli ultimi giorni mi avessero colpito in modi che non avevo previsto. Continuavo a ripensare alle mie scelte, ponderando ogni decisione e le sue conseguenze. Sentivo di essere cambiata. Facevo cose per me inimmaginabili fino a poco tempo prima e frequentavo persone che normalmente avrei evitato. Era questa la persona che volevo essere?”

Ho provato tantissime sensazioni, anche molto forti, durante le mie due run a questo gioco che in fondo gioco non è. O perlomeno non lo è nella sua accezione più conosciuta di svago, ricreazione, intrattenimento. Se proprio dovessi categorizzare Gerda: A flame in winter lo inserirei più tra i serious games, per il suo forte impianto storico e le sue finalità quasi didattiche. Prima di Gerda: A flame in winter ci hanno provato anche Attentat 1942, Svoboda 1945 Liberation e ancor prima Valiant Hearts, pur non rinunciando ad una minima componente ludica. Qui di ludico c’è ben poco, si procede solamente per scelte e diramazioni con minimi elementi da GDR. Sono pochi i parametri da tenere sott’occhio; tra cui innanzitutto la fiducia che i vari personaggi avranno nei nostri confronti.

In base alle nostre scelte può diminuire o salire, andando ad influenzare gli esiti di determinate decisioni. Poi la relazione con in vari schieramenti: i danesi e i tedeschi, l’occupazione e la Resistenza: anche qui le nostre scelte dialettiche possono pendere a favore di una o dell’altra parte; infine, tre parametri come compassione, intuizione e arguzia che guadagniamo alla fine di ogni “episodio” decidendo come far terminare la pagina del diario che Gerda sta scrivendo. La componente aleatoria viene gestita (a mio parere un po’ malamente) attraverso un lancio di dadi che può avere una maggiore o minore probabilità di successo in base alla fiducia dei personaggi nei confronti di Gerda; anche le informazioni e gli oggetti che possiede possono influenzare il risultato. Da notare che alcune opzioni di dialogo restano bloccate se non si hanno l’oggetto, le informazioni oppure il livello di relazione o fiducia richiesti, facendo prendere una piega magari inaspettata alla storia.

Per dare un po’ suspance al gioco, che altrimenti risulta sempre molto pacato e riflessivo, gli sviluppatori hanno inserito in alcuni punti specifici la comparsa di una barra dei progressi cui bisogna prestare attenzione a non far riempire o svuotare, agendo di fretta o con più cautela, altrimenti alcune opzioni potrebbero bloccarsi.

Sicuramente non è un gioco per tutti – non vuole esserlo; ha dalla sua diversi difetti (anche se trascurabili) a partire dalle animazioni legnose, passando per la musica monotona e ripetitiva. Visivamente è invece molto accattivante, riesce benissimo a trasmettere la sensazione di freddo (non solo meteorologico ma anche dell’animo) grazie ad un uso della palette di colori, ai bordi dello schermo che sembrano ghiacciati e al costante rumore del vento che spira. Una cosa, soprattutto, la fa bene, anzi benissimo: racconta una storia piccola, marginale, basata su fatti reali, documentati anche con foto dell’epoca e piccoli aneddoti storici. Ci mette nei panni di un personaggio minore, una ragazza entrata da poco negli anni che dovrebbero essere i più belli della sua esistenza, dove vorrebbe solo crearsi una famiglia, avere una casa accogliente, partecipare al Sønderjysk kaffebord e svolgere il lavoro per cui ha studiato. Invece si trova a dover gestire una situazione più grande di lei. In mano non ha una pistola, ma solo le sue scelte.

Quando è arrivato il momento del commiato da questo gioco, e pensando a una degna conclusione per questo articolo, mi è tornata in mente la sciarpa rossa, che doveva pur avere un significato semiotico. Al di là di un immediato collegamento puramente estetico con il cappottino rosso di Schindler’s List o di un ancor più facile accostamento con la bandiera simbolo del comunismo, facendo una piccola ricerca sul web ho scoperto che nel linguaggio dei sogni la sciarpa rossa indica la paura che si ha di perdere qualcuno. Hannah Arendt ne Le origini del totalitarismo (1951) aveva individuato che il pilastro su cui poggiano i totalitarismi è proprio la paura. Attraverso di essa si esercita il dominio e il controllo, e il fine è fare in modo che non si crei un legame di simpatia, di solidarietà con i perseguitati. Il totalitarismo inizia a perdere colpi quando qualcuno fa un gesto, anche insignificante, che rompe quella condizione, ed è proprio qui che ho capito la grandezza di questo piccolo capolavoro narrativo: Gerda attraverso piccoli gesti e attraverso le sue scelte, a volte anche moralmente discutibili ma drammaticamente necessarie, non si fa dominare dalla paura. Perché giusto e sbagliato, in guerra, si confondono.

Questo articolo è apparso su Outcast.it

Strange Horticulture: Papers, Please incontra Carlo Linneo

Basterebbero due parole per definire Strange Horticulture: gotico linneano. Questo articolo potrebbe terminare qui. Provo a spiegarmi meglio. Per chi non lo sapesse, Carlo Linneo, naturalista svedese vissuto nel 1700, è passato alla storia per aver ideato il metodo di classificazione che adotta la nomenclatura binomia, ovvero assegnare agli organismi viventi due nomi, uno per il genere e uno per la specie.

Tutto il gioco di Bad Viking è costruito dall’inizio alla fine su questa meccanica. Si scoprono delle piante, si consulta un tomo in nostra dotazione chiamato The Strange Book of Plants, si cerca di assegnare ed etichettare il giusto nome alla giusta pianta. Potrebbe sembrare un lavoro noiosissimo, che richiede spirito di osservazione, pazienza e tanto studio. Infatti così è. Non c’è la minima traccia di azione, non ci sono cronometri che mettono ansia, punteggi, nessun game over (su questo punto tornerò più avanti). Tutta l’avventura si svolge dietro il bancone del negozio di Strange Horticulture nella cittadina di Undermere. Impersoniamo la proprietaria (che non vediamo mai) di questa botteguccia scalcagnata e la nostra giornata lavorativa consiste nel suonare il campanello per fare entrare il prossimo cliente, catalogare piante, annaffiarle e dare una grattatina al gatto nero Hellebore. Quello che si presenta a schermo davanti ai nostri occhi, per la maggior parte del tempo, è un consunto tavolo dove appoggiare le nostre mappe e i nostri libri, un cassetto dove riporre lettere ed oggetti, le mensole dove a mano a mano andremo a posizionare le piante trovate e la porta del negozio dalla quale durante la giornata entreranno i vari personaggi.

Strange Horticulture mi ha ricordato molto da vicino due giochi indie che ho amato, ormai usciti alcuni anni fà. Il primo, da cui prende lo spunto più grande, è sicuramente Papers, Please di Lucas Pope (2013). Entrambi sono scanditi in giornate lavorative, entrambi ci presentano le proprie postazioni di lavoro su cui appoggiare i vari documenti da esaminare, entrambi usano un sottile gioco logico-deduttivo per avanzare, entrambi ci mettono di fronte a scelte morali che influenzeranno il corso della storia. Le scrivanie di Arstotzka e Undermere hanno molto in comune, se non altro riescono nella difficile impresa di far sembrare interessante ed avvincente un lavoro noioso (doganiere il primo e classificatore botanico il secondo). Come in Papers, Please, si cade nel cuore del gameplay dopo poche ore e non se ne esce più. Nella seconda run da orticultore in erba (pun intended) per vedere un altro degli otto finali disponibili (stavolta ho sbloccato quello migliore), ero quasi in grado di identificare le piante senza neanche aprire il manuale. Le avevo interiorizzate, aiutato anche dalla accuratissima localizzazione italiana. Ogni pianta, sia nel nome, che nella sua nomenclatura binomia latina, che nella sua splendida rappresentazione grafica, evoca alla perfezione la sua funzione occulta o le sue proprietà terapeutiche. Nell’individuare correttamente le 77 piante che vanno a riempire il manuale The Strange Book of Plants si prova una soddisfazione tale che Carlo Linneo sarebbe orgoglioso di noi.  

L’altro gioco che mi ha ricordato Strange Horticulture è In other Waters di Jump over the age (2020). Stavolta il collegamento è più sottile ma chi ha già vestito i panni (o meglio l’I.A. dello scafandro) della xenobiologa Ellery Vas potrà presto capire il perché. Entrambi i mondi di gioco vengono appena accennati graficamente, il grosso del lavoro viene fatto dalle parole e dall’immaginazione del giocatore. Come in In other Waters, ci si sposta solo attraverso una mappa. Non si vede mai il mondo in cui ci muoviamo ma solo la sua rappresentazione cartografica. Questo espediente, che alla maggior parte dei giocatori può sembrare un limite, io lo trovo invece riuscitissimo. Nel monumentale libro La storia del mondo in dodici mappe di Jerry Brotton, l’autore si interroga sull’importanza e la necessità delle mappe.

L’impulso a disegnare mappe e carte geografiche è un istinto umano fondamentale e immortale. Dove saremmo senza? La risposta ovvia è, naturalmente, “saremmo perduti”, ma le carte non servono solo a capire come fare ad andare da un luogo a un altro: forniscono risposte a molte altre domande. Fin dalla prima infanzia, definiamo noi stessi in rapporto al mondo fisico in cui viviamo elaborando informazioni relative allo spazio. Gli psicologi chiamano questa attività, lo strumento mentale grazie al quale gli individui acquisiscono, catalogano e richiamano informazioni sul proprio ambiente spaziale, “mappatura cognitiva”. Attraverso la mappatura cognitiva ciascuno di noi si differenzia e si definisce spazialmente rispetto al mondo smisurato, terrificante e inconoscibile che sta “fuori”.

È proprio questa la sensazione che si prova giocando a In Other Waters e Strange Horticulture. Un misto di horror vacui, paura per l’ignoto e il vuoto, e allo stesso tempo la necessità di andare avanti. Ci sentiamo quasi in dovere di esplorare ogni singolo angolo della mappa, raccogliere e catalogare tutte le specie possibili oltre a far dipanare la storia. La mappa di Undermere e dei suoi dintorni è divisa in 17×33 caselle, per un totale di 561. Per esplorare la mappa, abbiamo bisogno che un indicatore chiamato “The will to explore” si riempia. Si può riempire lentamente con il passare naturale del tempo, un po’ più velocemente annaffiando le piante in nostro possesso, o in un colpo solo quando riceviamo una lettera o un indizio importante. 

La dettagliatissima e consunta mappa di Undermere presenta diverse cittadine, fiumi, laghi, montagne, boschi, grotte, castelli che non aspettano altro di essere esplorati. Ma non si possono visitare a caso, non si può puntare il dito e partire. Se si clicca su una casella che non conduce a nulla, oltre ad azzerare “La voglia di esplorare” , si rischia anche di far crescere l’indicatore “Un terrore crescente”. Come dicevo all’inizio dell’articolo, non c’è un vero e proprio game over, ma dopo tre tentativi sbagliati la nostra mente cadrà a pezzi e bisognerà risolvere un mini puzzle game per ricominciare dall’ultimo cliente. L’unico modo per muoversi correttamente sulla mappa e riuscire ad identificare le piante che a mano a mano troviamo nei nostri pellegrinaggi è elaborare in maniera logico deduttiva le informazioni (a volte criptiche, a volte meno) che ci vengono date dai vari clienti, dalle lettere che riceviamo o dalla carta di un mazzo che alla fine di ogni giornata viene girata. 

Strange Horticulture pesca a piene mani da due titoli importantissimi (almeno per me) nel panorama indie dello scorso decennio, li infarcisce con una storia gotica che fa dell’occulto e della magia nera i suoi punti di forza. Ci lascia la piena facoltà di decidere che piega debba prendere la storia grazie alle nostre conoscenze botaniche ed erboristiche, che potremmo usare a discapito di alcuni personaggi o a favore di altri. Ma quello che meglio riesce al gioco è aver dato vita ad una tassonomia di variopinte piante fittizie dalle caratteristiche uniche che ti vien voglia di usarle veramente. Quanto mi servirebbe ora un po’ di Pampianella (Bacusis Palustris).

Questo articolo è apparso su Outcast.it

Ho scritto un articolo di merda

Ho scritto un articolo di merda

Artista di Strada: Ughhh… Il mio stomaco ancora non è del tutto a posto.

Catherine: Quell’hot dog alla fine ti si sta ritorcendo contro?

AdS: Queste ultime due ore sono state la peggiore esperienza della mia vita. Perché mi hai fatto mangiare quella cosa??

Chaterine: Erano un po’ grigi, ma a parte questo a me sembravano a posto.

AdS: Si, anche io pensavo lo stesso. Dopo che te ne sei andata il mio stomaco ha cominciato ad urlare. Tu lo sai quanto è difficile trovare un bagno nel quartiere francese?

Catherine: Ma ne hai trovato uno, vero?  Quindi tutto a posto.

AdS: No. Non l’ho trovato.

Catherine: E allora cosa hai fatto?

AdS: Non credo tu lo voglia sapere.

Catherine: Oh, sì che lo voglio.

AdS: Mi mandi delle cattive vibrazioni, lo sai? Vuoi sapere come ho affrontato quell’attacco pazzesco ed esplosivo di diarrea che mi è venuto a causa tua? È una specie di abuso di potere o cosa? Te ne vai in giro a convincere i giovani a mangiare vecchi e grigi hot dog tutte le notti, o era un’occasione speciale?

Catherine: Occasione speciale.

AdS: E poi li segui per vedere dove e come cagano? È questo che fai durante le tue serate infrasettimanali?

Catherine: Sono qui, no?

AdS: Ok. Va bene. Te lo dirò ma ricorda che sei stata tu a domandarlo. Dopo che hai lasciato il quartiere francese, sono rimasto lì con Flanelass a gustarmi il secondo hot dog. A quel punto ho capito che qualcosa non andava con il mio stomaco. Sono corso su per la via in cerca di un bagno in qualche locale acchiappaturisti, ma il buttafuori mi rimbalzava ogni volta che era il mio turno.

A quel punto ero disperato. Ho tolto il lucchetto dalla bici e ho cominciato a pedalare come un matto verso casa. Ho quasi investito un paio di pedoni.

Abito tra Elysian Field e Saint Claude. Un incrocio principale. Una marea di traffico bloccato per circa mezzo chilometro per via di un incidente. So che sto per cagarmi addosso. Sta arrivando. Sono nel panico più completo. Se cago lì, decine di persone mi vedrebbero. Ho bisogno di privacy velocemente. C’è una limousine Hummer accostata lungo la strada con un po’ di gente che si diverte sul marciapiede di fianco.

Sembrano studenti delle superiori, forse pronti per andare in discoteca o qualcosa del genere. Hanno formato un capannello su un lato solo della limousine, quello sul marciapiede. Io sono in strada, dal lato opposto. Perciò ho mollato la bici lì per lì in mezzo alla carreggiata e sono sgattaiolato dentro la limousine nel modo più silenzioso che potevo. Non c’era nessuno dentro. Erano tutti fuori. Non ci ho pensato due volte. Mi sono abbassato i pantaloni e l’ho mollata. E, lo sai, ne era tanta. Mi ci ha voluto un po’.

Vado avanti? Ti stai ancora divertendo?

Catherine: Ti prego vai avanti.

AdS: Sei disgustosa. Comunque, mentre sono lì i ragazzi chiudono la porta, l’autista sale e le luci si spengono. Credo che l’autista stesse solamente lasciando i ragazzi in centro. Non lo so. Ma a questo punto siamo solo io e lui. C’è un vetro oscurato che divide l’abitacolo dal retro della limousine. Sarebbe piuttosto difficile per l’autista vedermi con le luci spente. Si mette al telefono, chiama sua moglie, la sua ragazza o chiunque sia, mentre ingrana la marcia. Crede che la limousine sia vuota. È in viva voce e posso ascoltare l’intera conversazione attraverso l’altoparlante appena di fianco alla mia testa.

La prima cosa che dice è quanto quei ragazzi puzzavano. Aggiunge che non accompagnerà mai più dei giovincelli così. Infine aggiunge che puzzavano come i pannolini dei neonati. E poi cominciano, tipo, a fare del sesso telefonico. Ci si buttano a capofitto. Si dicono cosa vogliono fare l’uno all’altra, questo tipo di cose.

Non che sia la cosa più importante al mondo, ma per ragioni in cui non voglio entrare, semplicemente non volevo più essere lì. Provo ad aprire la porta, pensando “Fanculo, salterò fuori”. Ma la porta è chiusa. Controllo le altre. Sono tutte chiuse. Mi avvicino al vetro oscurato e inizio a picchiettarci sopra. “Signore! Signore, mi avete dimenticato!” Riattacca il telefono, e abbassa un po’ il finestrino.

“Chi diavolo sei??” mi chiede.

“Sono uno dei… dei ragazzi! Si è dimenticato di scaricarmi!”

Comincia a urlare. “Cos’è quest’odore? COS’È quest’odore?”

Il cuore mi batte in gola. Non riesco a respirare. Alza il finestrino e chiama la polizia. Ancora una volta, posso sentire l’intera conversazione. L’operatore chiede qual è il problema. Dice che un uomo ha fatto irruzione nella sua limousine e ci ha cagato dentro. Proprio così. “Un uomo ha fatto irruzione nella mia limousine e ci ha cagato dentro.”

Gli chiedono dove si trova. Accosta sul ciglio della strada e aspetta i poliziotti. Sto bussando sul finestrino, supplicandolo di farmi uscire, dicendo che lo pagherò per fare ripulire la sua limousine. Fa finta di niente.

Vuoi ancora ascoltare?

Catherine: Certamente

AdS: Va bene. Quindi ecco cosa mi aspetta. Il dipartimento di polizia di New Orleans non si è mai presentato per NESSUN CASO in tempo. Gli ci vogliono ore per presentarsi sulla scena di un omicidio, giusto?

Bene, un’auto della polizia si ferma dietro la limousine in circa tre minuti. A questo punto sono, non so nemmeno spiegarti… Sto per avere un infarto. Sto morendo. Mi accovaccio dietro lo sportello e aspetto. C’è merda ovunque. È sulle mie scarpe, sulle mie mani, sulla mia maglietta. Non ho scuse.

L’autista scende, apre lo sportello ai poliziotti. Scatto fuori come una molla e comincio a correre senza neanche guardarmi indietro. Sento i poliziotti che urlano. Entro nel quartiere e vedo un container per le ristrutturazioni a circa un isolato di distanza. Corro come un fulmine verso quella cosa, mi ci tuffo dentro. C’è filo spinato, chiodi, ogni genere di cose. Mi sto graffiando. Non mi interessa. L’adrenalina scorre nelle mie vene. Scavo nel mucchio di spazzatura come una talpa e mi nascondo. Sento le sirene della polizia. L’auto si ferma vicino al container. I poliziotti scendono, si guardano intorno. Fanno luce proprio su di me. Rimango perfettamente immobile trattenendo il respiro.

Alla fine se ne vanno. Aspetto un paio di minuti. Esco. Cammino fin qui. Faccio un’altra cagata.

Catherine: Mi dispiace tanto.

AdS: Sì, beh. Gli hot dog.

Questa è la Norco videoludica.

Ho trascritto e tradotto (alla meglio) questa conversazione che tocca le vette della narrazione videoludica come poche altre (sui due piedi mi vengono in mente Kentucky Route Zero, a cui Norco deve chiaramente molto, Disco Elysium e Heaven’s Vault). Il dialogo è completamente inutile ai fini del gioco e della sua risoluzione, non svela né aggiunge nulla alla trama ed è anche opzionale, nel senso che se non si incontra di nuovo quel personaggio e non gli si fanno le giuste domande, potreste non leggerlo mai. Eppure, rappresenta probabilmente la cosa più vera, autentica, priva di filtri che mi sia mai capitata di leggere in un videogioco. Chi non si è mai trovato in questa situazione? Per anni è stato il mio incubo peggiore, quando ogni mattina da adolescente dovevo prendere un autobus per recarmi a scuola e farmi un’ora e mezza seduto su un sedile insieme ad altri quaranta studenti dopo aver fatto colazione. Oppure quando, in giro per locali, controllavo sempre la presenza di un bagno decente, purtroppo cosa molto rara negli anni Ottanta e Novanta. Per non parlare, quando si andava in gita, del livello di pulizia e comfort dei bagni degli autogrill, che parevano usciti da un dipinto di Bosch.

Questa è la Norco reale. Scova le differenze: nessuna.

In Norco di merda ce n’è tanta, questo non è l’unico dialogo in cui viene nominata. Ce ne sono altri e ve li lascio scoprire da soli. Ma la merda, quella vera e forse più schifosa, è quella che esce dalla raffineria di petrolio Shield che inquina l’aria e fa ammalare di tumore gli abitanti del piccolo quartiere. Norco esiste veramente, si trova in Louisiana, vicino New Orleans, lungo le sponde del Mississippi. Mi sono preso la briga di controllare su Google Maps e nonostante Norco sia un videogame che cela la sua narrazione dietro etichette come “distopico”, “weird”, “cyberpunk”, “sci-fi”, “southern gothic”, andando a spiare la Norco reale si capisce che di fantastico non c’è poi molto. La presenza della raffineria Shell (che sottile gioco di parole) è ingombrante e perenne con le sue ciminiere, le fiamme, le nuvole nere. Norco parla di ecoterrorismo, transumanesimo, sette e culti, robot e AI, tecnocrazia, religione, alieni, colonizzazione spaziale, disastri naturali, ecologia, criptovalute, videogiochi, e infine, pur se con molta fatica, di umanità. Un capolavoro, almeno per quanto riguarda la scrittura e l’impianto scenografico.

P.S. Non capisco perché in America si possano raccontare storie così mature in un videogioco mentre in Italia non si riesca a fare lo stesso. Se al posto di Shield e Norco mettessimo, ad esempio, Milva e il quartiere di Taranto Tamburi?

Questo articolo è uscito su Outcast.it

Onde su Onde

Onda su onda

Bruno Lauzi, nel 1978, cantava Onda su onda, e in questa divertente introduzione, che proprio all’inizio involontariamente ricorda e anzi ricalca pari pari il prologo di quel piccolo capolavoro di narrativa videoludica che è Overboard!, esclama ad un certo punto:

Però la crisi del petrolio, grosso modo, c’è dovunque, l’abbiamo sentita tutti. Oh, da noi un grosso esponente politico, proprio stasera, ha dichiarato che fino a ieri eravamo sull’orlo del baratro ma oggi finalmente abbiamo fatto un passo avanti.

Risate.

Quando si nominano gli anni Settanta, si tende a pensare subito ai figli dei fiori, alla trasgressione, alla rivoluzione. Ma negli anni Settanta ci sono state anche due grandi crisi energetiche. Una nel 1973 (anno in cui sono nato io), scatenata dalla guerra di Egitto e Siria contro Israele, e successivamente quella del 1979, provocata sempre da una guerra tra Iran e Iraq. Entrambe hanno portato a un’impennata dei prezzi del petrolio, al crollo dei consumi e fasi di recessione e austerity.

La storia, purtroppo, si ripete. La storia, si sa, è ciclica. Non lo dico io, lo dicono prima gli stoici greci, poi Machiavelli (“non essendo dalla natura conceduto alle mondane cose di fermarsi”), quindi Nietzsche (“l’eterno ritorno”). E qual è la figura che meglio rappresenta la ciclicità se non il cerchio?

Il piccolissimo team di sviluppatori francesi composto da Lance e 3-50 ha pensato bene di basare un gioco intero intorno alla figura elementare, simbolica e archetipica del cerchio. E quando dico un gioco intero non esagero. Il nostro avatar è formato guarda caso da quattro cerchietti intersecati tra loro, a cui si aggiungono dei tentacoli a mo’ di medusa. Scopriamo quasi subito che i quattro cerchietti altro non sono che i tasti del nostro joypad. L’unicità di questo esserino è che si può muovere solamente all’esterno della circonferenza di altri cerchi. Se lo lasciamo andare nello spazio vuoto o gli facciamo toccare superfici che non sono tonde, i nostri cerchietti si scompongono e si deve ripartire dall’ultimo cerchio che abbiamo lasciato. Per muoverci, oltre a “surfare” sulla circonferenza dei cerchi già presenti a schermo, possiamo generare delle onde circolari usando uno dei quattro tasti del joypad. Questo ci permette di raggiungere nuovi cerchi che fungono anche da checkpoint e far sì che il nostro viaggio prosegua. Non tutte le onde sono “buone”, però. Alcune, infatti, hanno la funzione di respingerci, se non addirittura ucciderci, e bisogna trovare un modo per contrastarle o evitarle.

Il mondo di gioco è etereo e stilizzato ma nonostante tutto riesce a restituire belle sensazioni, soprattutto considerando il fatto che un buon cinquanta per cento di quello che si vede a schermo viene rappresentato attraverso dei cerchi. Le onde che andiamo a generare non sono infinite ma si consumano. La meccanica principale del gioco e tutti i puzzle ambientali sono infatti basati su questo sistema. Approfittare dell’onda prima che questa scompaia per approdare al cerchio successivo. Piccole variazioni sul tema vengono introdotte successivamente per modificare di poco quella che vuole essere prima di tutto un’esperienza rilassante e zen. Non ci sono picchi di difficoltà, tutto risulta molto fluido e intuitivo. Solo in alcuni punti un pochino più ostici ho dovuto ripetere alcune fasi in inutili momenti di trial and error, che hanno generato un po’ di frustrazione. Per il resto è un viaggio che scivola via nel giro di un paio d’ore e che con i suoi suoni rilassanti e i suoi incantevoli paesaggi astratti, dovrebbe indurci in uno stato di grazia e calma. Detto questo, non è certo un’opera che ricorderemo negli annali dei videogiochi. Si ispira profondamente ad una fra le prime opere di Jenova Chen, che rispondeva al nome di Flow, e sempre bazzicando dalle parti di thatgamecompany, ci ho ritrovato dentro anche un pò di Journey per la storia ermetica e senza parole. In alcuni passaggi il gioco mi ha fatto venire in mente anche Gris e il più recente e meritevole Ynglet che, nonostante graficamente si assomiglino molto, a differenza di Onde propone un livello di sfida platform molto più elevato e che introduce in continuazione meccaniche nuove e sorprendenti. Qui, pur facendo leva su una buona art direction e una colonna sonora adattiva, che risponde ad ambienti melodici, manca quel guizzo innovativo nel gameplay, che rimane piuttosto basilare dall’inizio alla fine, rendendo l’esperienza un po’ monotona. Anche il level design non brilla certo per innovazione ed originalità.

Eppure, in un momento del gioco ho provato un brivido vero e non è cosa che mi capita spesso coi videogiochi. E non è successo, come ci si aspetterebbe, neanche nel finale (cosa che invece è accaduta puntuale con Journey). Mi sono emozionato in un apparente ed insignificante momento nella prima metà del mio viaggio. Complici una musica molto simile a questa dei Sigur Ròs (a cui sono particolarmente legato per motivi affettivi) e una meccanica in cui per superare un certo ostacolo bisogna generare alternativamente e contemporaneamente due onde con due pulsanti diversi, per far sì che si incrocino e che crescano. Mi ha fatto pensare al fatto che noi esseri umani non siamo altro che onde che prima o poi svaniscono, ma se abbiamo la fortuna di incontrare un’onda che ci aiuta a far proseguire il viaggio, possiamo crescere insieme e superare anche gli scogli più ardui. Le onde, a loro volta, prima di scomparire, possono dare la spinta necessaria per generarne altre, in un ciclo continuo. Bisogna solo aspettare l’onda giusta. Prima o poi arriva.

A Katiuscia, la mia onda.

Droga, sesso, rock and roll e uccellacci del malaugurio

Chi ha avuto la fortuna di entrare nella stanza di Lewis Finch, ricavata da una barca sospesa in cima a quell’ammasso architettonico sbilenco che è la dimora di What remains of Edith Finch, non può non ricordare che amava la psichedelia degli anni Settanta, le canne e tutto ciò che è lisergico e allucinogeno. Ah, e anche i videogiochi (ci sarà una relazione?). Le pareti della sua camera sono tappezzate di poster con foglie di mariuana e mandala dai colori che reagiscono alla luce ultravioletta, su un tavolinetto un narghilè, e un pò dappertutto resti di erba e cenere, oltre a tappi di bottiglia e qualche lattina di birra. Insomma, non si faceva mancare niente. Per cercare di tirarlo fuori da questa dipendenza, la madre pensa bene di trovargli un adorabile lavoretto presso il conservificio dell’isola, dove gli viene assegnato il ruolo di decapitatore di teste ai salmoni. Il lavoro è ripetitivo, alienante, meccanico. Lewis si isola sempre di più e nella sua mente comincia a crearsi una realtà alternativa, che assomiglia tanto ad un videogioco. La cosa non è casuale, perché tra i vari libri che ha nella sua stanza, si possono trovare diversi manuali di game design. L’escapismo è l’unico strumento che ha per non soccombere. Gli sviluppatori di Giant Sparrow utilizzano un gameplay ripetitivo al fine di replicare lo scollamento dalla realtà tipico dell’uomo inserito in una “catena di montaggio”, mentre il virtuale piano piano prende il sopravvento. In quello che per me rimane uno fra i momenti più alti che la narrazione videoludica abbia mai raggiunto, Lewis, e con esso il giocatore, rappresenta al meglio l’alienazione dell’uomo nell’epoca post-moderna. Affranto dalla realtà che non lo soddisfa e privato dalle sue droghe, si rifugia in un mondo illusorio che diventa sempre più dettagliato, accogliente, festante, dove può finalmente scegliere chi essere.

Stessa inquadratura, stessa mansione: scatolame, scatolame, scatolame

Lewis e Gabriel, il protagonista di A Musical Story, hanno così tanto in comune. Cercano entrambi un modo per evadere dalla quotidianità e dalla routine deprimente, si aiutano con le droghe e, mentre il primo si arma di joypad e tastiera, l’altro imbraccia la chitarra elettrica e, a suon di riff, birre e spinelli, spera di tirarsene fuori. Gabriel è un ragazzo afroamericano dalle sembianze hendrixiane, che di giorno lavora in una fabbrica di fagioli in scatola e il suo allegro compito è di etichettare le lattine con il faccione di un corvo. Naturalmente questo non è il futuro che Gabriel ha sempre sognato per sé. Ma gli anni 70 si sà, sono stati gli anni delle rivoluzioni, della libertà, della trasgressione, delle grandi opportunità. E allora, insieme a due suoi amici musicisti, decide di partecipare al festival di Pinewood, che potrebbe essere il trampolino di lancio per la loro carriera musicale. Rimettono in sesto un furgoncino sgangherato e iniziano il loro viaggio. Solo che all’inizio del gioco ritroviamo Gabriel in un letto di ospedale in coma. Le cose non sono andate bene. Ed è qui che inizia la storia e anche il compito del giocatore.

Anche se non in formissima, a Gabriel è andata meglio che a Lewis

Sono sempre di più i casi di persone che escono dal coma grazie alla musica. La musica ha il potere di risvegliare i ricordi, di infrangere barriere che in altri modi restano intatte ed inaccessibili. Proprio da queste premesse, partono i ragazzi del piccolo studio francese Glee-Cheese per costruire il gameplay e l’impianto narrativo del loro primo gioco. Con un’interfaccia minimale che ricorda un vinile, il compito del giocatore è quello di ricreare la melodia o il ritmo proposto su schermo. Per fare ciò, si hanno a disposizione solo due tasti: trigger sinistro e trigger destro. A seconda del tipo di melodia e ritmo, bisogna premere l’uno, l’altro o entrambi, andando a tempo con quello che ci viene fatto ascoltare e anche mostrato da alcuni cerchietti che compaiono sul bordo del cerchio principale. Più difficile da spiegare che da mettere in atto. Se prendiamo la nota nel momento giusto, il cerchio si illumina e una sorta di “proiettile” parte per andare a colpire il ricordo e generare un’onda. Insomma, le note che Gabriel suonava insieme al suo gruppo lo potranno svegliare dal coma, ma devono essere suonate bene, altrimenti non arrivano. Il compito, naturalmente, è quello di azzeccare il tempo e non sbagliare neanche una nota, pena la ripetizione in loop del breve fraseggio. Ogni capitolo si compone via via di un numero di fraseggi maggiore, che vanno a comporre il brano legato a quel ricordo. A volte, infatti, possiamo suonare un riff di chitarra, altre una base ritmica, altre ancora le tastiere o la melodica. Il concetto non cambia. Eseguire perfettamente a tempo le note. Quando tutto viene suonato alla perfezione, il ricordo si sblocca, la storia può proseguire e delle animazioni compaiono dove prima c’era il vinile nero.

A voi non ricorda un vinile? Scusa, che cos’è un vinile?

Descritto così A Musical Story potrebbe sembrare un giochino casual banale ed insignificante. Invece no. Si vede che è un prodotto confezionato con tanta cura e amore. Amore innanzitutto per gli anni Settanta, per la splendida musica che hanno generato e la cui influenza continua ancora oggi a riverberare in alcune band (forse in alcune troppo spudoratamente). Amore per la cultura pacifista, per la vita semplice in armonia con la natura, per quel senso di libertà e di “tutto può accadere” che oggi invece abbiamo perso.  È un gioco che consiglio assolutamente a chi ama quel periodo, la sua musica e anche a chi vuol seguire una semplice ma efficace storia di amicizia e amore, raccontata per mezzo di splendide illustrazioni animate senza l’uso di parole. Forse l’unico difetto, se così vogliamo chiamarlo, è che non fa nulla per aiutare il giocatore. O meglio, lo fa ma solo dopo svariati fallimenti. E se più o meno nella prima metà del nostro percorso le cose sono abbastanza facili, da un punto in poi c’è un innalzamento del picco di difficoltà davvero alto. Le ritmiche si fanno sincopate e le melodie dodecafoniche. Anche perché non ci sono aiuti visivi come in molti altri rhythm games. Bisogna “sentire” la musica, andare a orecchio, interiorizzare per poi ripetere. L’aiuto visivo si attiva automaticamente e progressivamente dopo diversi tentativi. Ma per chi vuole ottenere la stella, e quindi sbloccare il finale alternativo, non sono ammessi errori. Bisogna azzeccare tutte le note al primo tentativo, pena il fallimento di tutto il capitolo e quindi ripetere tutto da capo. Un pò di frustrazione arriva, soprattutto se si cerca la perfezione. D’altronde, il gioco è filologicamente onesto. Per riuscire a raggiungere il proprio sogno (Pinewood, in questo caso) bisogna esercitarsi, altrimenti si resta ad attaccare etichette sulle lattine di fagioli. Tutto il gioco è organizzato come un concept album, da ascoltare in fila. Un vecchio vinile che va ascoltato ripetutamente per essere assimilato, traccia dopo traccia, senza soluzione di continuità. Anche perché la musica sottolinea brillantemente gli eventi che capitano ai protagonisti. Si passa da riff potentissimi e ritmati a sintetizzatori cupi e sincopati, da ballate folk acustiche a rock psichedelico. Tutto è coeso e coerente, musica e immagini vanno di pari passo. Strepitoso!

Buddy Miles (1948-2008) R.I.P.

Anche a me questo gioco ha sbloccato un ricordo! Se il giovane chitarrista è chiaramente ispirato a Jimi Hendrix, il batterista ha invece una vaga somiglianza con l’esplosivo Buddy Miles, che è stato il vero batterista di Hendrix dal 1969 con i Band of Gypsys. Sono passati quasi venticinque anni da quando l’ho visto esibirsi dal vivo in un piccolo club di Recanati. Avevo da poco iniziato a suonare il basso e ogni occasione era buona per uscire ad ascoltare un po’ di musica live, anche se ad essere sincero, il rock anni Settanta non ha mai fatto troppa presa su di me, pur essendo nato in quel decennio. Invece lo ricordo come uno dei più potenti, veri, galvanizzanti, trascinanti show a cui abbia mai assistito. Buddy aveva sempre il sorriso stampato in faccia, ha suonato la chitarra, la batteria e ha cantato in un lago di sudore tanta era la sua mole, ma non si è risparmiato e, pur avendone il diritto, non ha minimamente mostrato di essere una star, anzi il contrario. Ora non ricordo bene come e perché, ma a fine serata mi sono ritrovato nel backstage. E davanti a me, improvvisamente, si sono palesati tutti, e dico tutti, i cliché della rockstar anni Settanta. Canne, whiskey e groupie a gogo alle tre di notte. Io che non ho mai neanche fumato una sigaretta! Ma anche a questo servono i videogiochi, a vivere mille vite e anche a sbloccare ricordi.

Io e Monokuma

…: E tu chi sei? Da dove arrivi?

…: Io chi sono? Piuttosto, tu chi sei? Un orso parlante, metà bianco e metà nero, con un inquietante ghigno rosso da una parte e un docile sorrisetto dall’altra!

…: Io sono Monokuma.

…: Ehm, io mi chiamo Gianni.

Monokuma: E cosa ci fai qui, Gianni?

Gianni: Non lo so, speravo che me lo dicessi tu.

Monokuma: Guarda che in questa scuola vengono solo i migliori talenti del paese.

Gianni: Ma io non ho nessun talento! E non ho chiesto di venire in questa scuola anche perché a quarantotto anni suonati credo di aver già dato con lo studio e sinceramente mi sento un po’ fuori luogo circondato da adolescenti che potrebbero essere miei figli.

Monokuma: Allora sei qui per pura fortuna. O sfortuna, dipende dai punti di vista.

Ah-hahahaha. Parlami un po’ di te.

Gianni: Mi definisco un tipo ordinario, senza nessuna abilità speciale, anche la mia personalità è abbastanza comune. Sì, certamente ho degli hobby, primo fra tutti i videogiochi perché li ho visti nascere, sono cresciuto con loro e loro con me. Me ne ero un po’ distaccato per qualche anno, diciamo dal 2000 al 2010, ma poi, complice una serie di eventi, mi sono riavvicinato. Si dice ritorno di fiamma, giusto? Mi definisco un tipo curioso e mi piacciono tutte le cose che non sono mainstream. O, per lo meno, appena lo diventano, le abbandono. Faccio così con tutto, dalla musica, alla letteratura, al cinema. Per fortuna mia moglie non è mainstream! Per campare, ora ho un localino dove faccio degli hamburger buonissimi e li abbino a birre artigianali, vini di piccoli vignaioli e cocktail, visto che avevo alle spalle un corso da sommelier e barman. Poi mi diverto un mondo a giocare con i miei due figli di sei e sette anni. Ma tornando a noi, è vero che qui alla Hope’s Peak Academy reclutate solo le persone migliori nelle loro specialità, i cosiddetti “ultimate”?

Che faccio, entro?

Monokuma: Sì, hai indovinato. I quindici studenti di questo semestre sono stati invitati con una lettera che dovresti aver ricevuto anche tu.

Gianni: Si l’ho ricevuta, ma a parte il fatto che non voglio tornare a scuola e che ti ho già detto che non ho nessun talento, chi sono gli altri studenti?

Monokuma: Non ti preoccupare, li conoscerai presto e sono sicuro che ti troverai bene con loro, perché sicuramente non sono mainstream. Sono anzi abbastanza sui generis. Conoscerai un’esperta di arti marziali, un rampollo benestante, una scrittrice, un programmatore, un campione di baseball, un teppista bōsōzoku, una top model, una idol, un mangaka, una giocatrice d’azzardo, un chiaroveggente, una nuotatrice ed altri di cui non voglio rovinarti la sorpresa. Ma mi chiedevo come mai hai scoperto la mia esistenza solo adesso? Sono passati dodici anni da quando ho spedito la lettera, lo sai che non è cortese presentarsi con tutto questo ritardo?

Ma dove li hai pescati, questi qua?

Gianni: Come ti ho detto ho avuto una pausa piuttosto lunga in cui non avevo proprio il tempo materiale per giocare. Avevo un altro lavoro che cannibalizzava le mie risorse fisiche, psichiche e temporali. Un tipo di lavoro che assomigliava proprio a quello di The Stanley Parable, non so se ce l’hai presente. Se proprio vuoi sapere come sono arrivato a te, provo a spiegartelo, anche se ci vorrà un po’ di tempo. Ma mi sembra di aver capito che ne abbiamo parecchio, visto che praticamente siamo murati vivi dentro a questa scuola. Come mai tutte le finestre sono sigillate da pesanti lastre di acciaio? E perché la porta d’ingresso assomiglia più a quella di un caveau?

Non bastava un lucchetto?

Monokuma: Semplice, perché una volta entrati non si può più uscire. Anche se un modo c’è, ma te lo spiegherò a tempo debito. Ora continua pure con la tua storia e su come sei arrivato a me.

Gianni: Un paio di anni fa ho provato un gioco che mi aveva letteralmente stregato. Ne avevo anche parlato in un podcast per quei tipi di Outcast, ma non credo che tu conosca questo sito un po’ “emarginato” e non certo mainstream. Comunque il podcast è andato perso per mano di un feroce, crudele e insensibile webmaster, quindi non posso metterti il link. Però vedo che qui alla Hope’s Peak Academy non siete messi male con la tecnologia, magari potresti recuperarlo nei meandri del dark web se ti va di ascoltare il fantasma della mia voce, che ne dici? Ha resistito invece un piccolo testo scritto in questo articolo in cui parlo anche del gioco in questione. Avevano proprio ragione i latini quando dicevano verba volant, scripta manent. Ma sto divagando, scusami. Il gioco che mi ha permesso di arrivare a te era Paradise Killer, un whodunit in prima persona ambientato in un piccolo open world dall’estetica vaporwave con eccentrici personaggi genderfluid e una storia weird.

Pensavo che i miei compagni di classe fossero strani ma qui andiamo proprio oltre.

OK, forse ho concentrato troppe parole difficili in una stessa frase e diventa complesso capire il significato anche per un orso robotico istruito e onnisciente come te. Riassumo dicendo che è stato il mio gioco dell’anno e che per me aveva costituito una ventata di freschezza in un mondo stantio come quello dei videogiochi mainstream, perché lasciava totale libertà di movimento nelle indagini e si potevano raccogliere indizi e progredire nel gioco in assoluta autonomia, senza essere troppo condotti per mano. Qui mi sembra invece che le cose progrediscano su binari ben stabiliti, ma visto che sono passati dodici anni, non posso lamentarmi più di troppo. E poi ho deciso che mi godrò questa esperienza con qualche bel bicchiere di vino in mano, dato che non ci sarà da sparare, saltare, rotolare ma fondamentalmente leggere, leggere e leggere (in inglese tra l’altro).

Monuokuma: A noi piace parlare, che ci possiamo fare. A tutti gli adolescenti piace parlare. Non siamo come te, che per tirarti fuori dalla bocca qualche parola bisogna interrogarti. Ma che diavolo c’entra Paradise Killer con me?

Gianni: Se mi fai finire, te lo spiego. Gli sviluppatori dello studio inglese Kaizen Game Works, formato di fatto da due persone, citavano, senza troppo nasconderlo, tra le fonti di ispirazione un certo Danganronpa, di cui io naturalmente non avevo mai sentito parlare perché uscito nel 2010 in Giappone e in quel periodo mi ero staccato dai videogiochi e stavo per sposarmi e poi sarebbe nata la prima figlia e poi il secondo e figurati se avevo il tempo di pensare a un videogioco con un banale e poco attraente orsetto bianco e nero in copertina!

Monokuma: Stupido! Stupido! Stupido! Come ti permetti? Questa mancanza di rispetto nei miei confronti è inammissibile! Potresti essere punito per questo e le mie punizioni sono esemplari. Potrei metterti in un hamburger gigante e grigliarti per bene. Puhuhu.

Gianni: Sai, ho accettato di entrare in questa scuola solo perché mi piacciono le investigazioni (a dire il vero anche perché la Cover Story di Oucast di febbraio è dedicata alle storie di detective e quindi avevo il pretesto per scrivere un pezzo). Mi fanno sentire intelligente. Notare i dettagli, sbrogliare la matassa e trovare i pezzi mancanti del puzzle, fare supposizioni ed arrivare alla giusta conclusione prima ancora del finale mi dà grande soddisfazione.

Monokuma: Quindi sei qui perché hai sentito dire che si investiga, vero? Hai trovato il posto giusto. Come ti dicevo, c’è un solo ed unico modo per uscire dalla Hope’s Peak Academy ed è uccidere uno degli altri studenti senza essere scoperti.

Gianni: Cooosa? Ma io non voglio uccidere nessuno!

Monokuma: Non ho detto che TU debba uccidere qualcuno, ma vedrai che dando delle motivazioni e instillando il seme della disperazione, prima o poi qualcosa succederà e si innescherà una serie di omicidi. A te e agli altri spetta scoprire il colpevole.

Gianni: Non ho problemi, mi piace ragionare. Io sono un tipo da mystery all’inglese più che da hard boiled. Sono a mio agio con l’archetipo narrativo dell’investigatore pensante, che riesce a risolvere in maniera dialettica il mistero grazie alle sue abilità intellettuali e quasi enigmistiche. Ad esempio ho apprezzato tanto The Return of the Obra Dinn e The Forgotten City e il loro approccio rilassato da “risoluzione davanti al camino” alla Ellery Queen.

Monokuma: Allora hai davvero trovato pane per i tuoi denti, perché quando il cadavere di uno studente o una studentessa verrà scoperto da almeno tre persone, sentirete l’annuncio. Vi consegnerò il Monokuma File, che contiene i dettagli della morte, e poi dovrete raccogliere indizi prima di andare al processo. Qui dovrai smontare a colpi di frasi e ragionamenti gli attacchi e le accuse degli altri studenti fino alla votazione finale, che incolperà il vero assassino. Pena la morte di tutti gli altri.

Giro giro tondo, casca il mondo.

Gianni: Lo sai che questa cosa mi ricorda un po’ la Golden Rule di The Forgotten City? “The many shall suffer for the sins of the one”. È così che funziona, quindi? Se non troviamo il vero colpevole, saremo uccisi tutti?

Monokuma: È proprio così. Ci sono tanti motivi per uccidere. I soldi, le relazioni, i segreti, i tradimenti. E una volta innescata, la disperazione è contagiosa.

Gianni: Va bene, sto al gioco, ma sappi che, anche se sono un tipo ordinario, andrò avanti con la speranza nel cuore. E che la disperazione non potrà mai uccidere la speranza.

Monokuma: Puhuhu. Ah-hahahaha.

Di videogiochi, arte e la necessità di uccidere il passato.

Nell’anno appena concluso ho giocato due titoli apparentemente molto diversi eppure molto simili. Uno è in bianco e nero, ha una grafica pixellosa e infantile, oserei dire finanche bruttina; l’altro è straripante di colori vividi da fare quasi male agli occhi, è pieno di effetti speciali e grafica sfavillante. Uno parla di pittura (la seconda arte) mentre l’altro parla di musica (la quarta arte), entrambi sfruttando il medium dei videogiochi (la decima arte). Uno ha parecchi enigmi da risolvere, una mappa piuttosto vasta da esplorare, tanti segreti da scovare e quest da portare a termine; l’altro scorre via in maniera lineare, c’è poco da fare se non correre da sinistra a destra, leggere i dialoghi e premere qualche pulsante, lasciando il fruitore poco più che un mero spettatore. Uno lascia al giocatore la libertà di esprimere la propria vena creativa, facendosi partecipe insieme agli autori del compito di (ri)dare vita a un mondo; l’altro spiattella in faccia a chi gioca tutta una serie di mondi allucinati ricchi di dettagli. Uno innova e rinnova il gameplay continuamente; l’altro ci rinuncia sin dall’inizio riducendo il tutto ad un incrocio tra un walking simulator e un Simon. Allora cos’hanno in comune questi due giochi?

La risposta è: SUDA51 e Kill the past. Una delle tematiche più amate dal game designer giapponese Goichi Suda (aka SUDA51) nelle sue produzioni videoludiche, sin dagli esordi, è proprio quella di uccidere il passato. Sotto il termine Kill the past rientrano tutta una serie di giochi che vanno a formare la spina dorsale della produzione di Suda in oltre 27 anni di carriera. Condividono un universo dove alcuni temi, simboli personaggi sono ricorrenti. I suoi protagonisti devono liberarsi da quel giogo che li tiene incollati ad un presente che inesorabilmente li farà scivolare nella follia. Il passato deve essere sempre affrontato, sfidato, accettato e mai negato.

Il pennello e la chitarra

Pizza (anche se è possibile cambiare nome e scegliere il genere non binario), il cane antropomorfo protagonista di Chicory: A Colorful Tale, entra casualmente in possesso di un pennello magico. L’ultima persona ad aver posseduto il pennello è stata Chicory, la lepre pittrice che abita nella torre dove Pizza va a fare le pulizie. Chicory non riusciva più a sostenere il peso del pennello, ad essere creativa a tutti i costi, schiacciata dall’ansia di dover produrre arte. E così i colori del mondo di Picnic se ne sono andati, tutto è rimasto in bianco e nero e alberi oscuri hanno cominciato a rimpiazzare il bosco. Si scoprirà che proprio il pennello è la causa di tutto, a causa del pesante retaggio culturale di tutti gli artisti precedenti che lo hanno posseduto. L’unico modo per liberarsene è distruggerlo. Uccidere il passato.

Chicory: A Colorful Tale (Fonte: press kit)

Attraverso questa potente metafora e attraverso il gameplay stesso che è una summa di citazioni di capolavori videoludici di tutte le epoche (Zelda: A Link to the Past e Undertale su tutti) Greg Lobanov paga sicuramente il pegno verso un passato che lo ha influenzato, ma allo stesso tempo lo uccide, lo metabolizza e dalle ceneri costruisce qualcosa di assolutamente unico e personale. L’arte non può prescindere dal passato, ma se ne deve liberare per generare qualcosa di nuovo. La creatività non è materia facile da gestire, soprattutto quando si è raggiunto un discreto successo (Wandersong) e ci sono alte aspettative. Creare qualcosa dal nulla significa doversi confrontare con mostri sacri, intoccabili. Il fallimento è dietro l’angolo e questo genera tensione, ansia, e può persino sfociare nella depressione. Può portare via tutti i colori dal proprio mondo. In medio stat virtus, quasi sempre: serve avere la conoscenza, ma anche un po’ di incoscienza; e soprattutto il piacere di fare e di prendersi il proprio tempo, seguire il proprio ritmo. Senza questo non si va da nessuna parte e ci si ritrova bloccati come Chicory.

Più o meno la stessa sorte capita al protagonista di The Artful Escape. Francis è un ragazzo che ha già il destino segnato come musicista folk in quanto nipote del leggendario zio Johnson Vendetti (una leggera somiglianza con Bob Dylan?), il quale ha venduto milioni di dischi. Ma Francis non è convinto fino in fondo di percorrere quella strada già spianata che lo vedrebbe strimpellare accordi su una chitarra acustica in una cittadina decadente di provincia. I suoi sogni volano molto più in alto e da appassionato di fantascienza e psichedelia si vede meglio nei panni del “personaggio da palcoscenico più elaborato che il mondo abbia mai visto”. Quindi si imbarcherà in un viaggio allucinatorio e lisergico che ha come fine principale quello di uccidere suo zio (almeno metaforicamente, visto che è già morto) e di liberare la sua vera essenza. Svestirà i panni del musicista folk, imbraccerà una chitarra elettrica e adotterà un nuovo look (una leggera somiglianza con Ziggy Stardust?). Alla fine del viaggio Francis avrà acquisito la consapevolezza di ciò che vuole diventare veramente, lasciandosi indietro il proprio passato.

Ecco come Chicory: A colorful tale The Artful Escape, per quanto estremamente diversi, quasi antitetici, sono accomunati da un messaggio di fondo che poi è lo stesso di tutta la poetica di SUDA51. Kill the past.

The Artful Escape (Fonte: press kit)

Altri passati

A pensarci bene lo scorso anno ho giocato anche un altro piccolo e purtroppo sottovalutato videogioco che brucia letteralmente il passato sotto forma di scatole piene di oggetti personali da portare sopra un falò. Si tratta di Bonfire Peaks, un brillante quanto punitivo puzzle game di Corey Martin. Il muto protagonista del titolo si muove in un overworld onirico e weird popolato da oggetti la cui presenza risulta inspiegabile fino alla fine. Quello che conta è che piano piano si crea nella nostra mente una narrazione, entriamo in sintonia con il personaggio, che di falò in falò, di puzzle in puzzle scala la montagna, inerpicandosi in un paesaggio dai colori autunnali che a sua volta è un macro puzzle. Entriamo in empatia con lui e ci chiediamo perché ha questo bisogno di bruciare le cose. È un gioco molto intimo e crepuscolare e lo si percepisce non appena ci si mettono sopra le mani, ma è solo salendo e scalando la montagna che ci si addentra nei ricordi più reconditi e dolorosi. È come una seduta psicoanalitica, al termine della quale ci si sente meglio; liberati.

E ancora un’altra piccola gemma, molto più rilassante ma non meno interessante per il modo originale di raccontare una storia. In Unpacking si sistemano gli oggetti appena tirati fuori dagli scatoloni dopo vari traslochi. Con il passare degli anni ci accorgeremo che alcuni effetti personali vengono persistentemente portati dietro (il peluche rosa), altri si perderanno per strada, ricordo di una vita passata che non c’è più. Vedremo ad esempio avvicendarsi diverse console, che con il tempo vengono schiacciate sotto il pesante macigno dell’obsolescenza. Oppure vivremo tutto il passaggio analogico-digitale subito dalla musica: dalle musicassette, ai cd, ai lettori mp3. Come novelli Marie Kondo bisognerà fare ordine e pulizia, sbarazzarsi dell’inutile e portare con sé solo ciò che è essenziale.

Anche se in maniera ancora più metaforica, astratta e non sempre a fuoco, Moncage parla del passato e della necessità di rompere la gabbia che ci tiene chiusi in una palude stagnante fatta di traumi bellici, abuso di alcol e farmaci. Con un gameplay innovativo dove le illusioni ottiche la fanno da padrone, mette il giocatore di fronte ad alcuni enigmi molto ben strutturati e allo stesso tempo racconta una piccola storia familiare.

Unpacking (Fonte: press kit)

Ai videogiochi, quelli belli

Ci siamo lasciati alle spalle un anno non certo semplice. Credo non sia casuale l’uscita di così tanti titoli con la voglia di spezzare le catene che ci legano al passato, di buttarsi tutto alle spalle, ricominciare da capo, cambiare aria. Sono titoli molto intimi, personali, che però parlano al pubblico in maniera universale, a volte senza neanche aver bisogno di parole, solo attraverso gli oggetti, gli ambienti, le metafore.

In un saggio del 1917 intitolato L’arte come procedimento, Viktor Šklovskij scriveva:

Così la vita scompare trasformandosi in nulla. L’automatizzazione si mangia gli oggetti, il vestito, il mobile, la moglie e la paura della guerra. […] Ed ecco che per restituire il senso della vita, per «sentire» gli oggetti, per far sì che la pietra sia di pietra, esiste ciò che si chiama arte. Scopo dell’arte è di trasmettere l’impressione dell’oggetto, come «visione» e non come «riconoscimento»; procedimento dell’arte è il procedimento dello «straniamento» degli oggetti.

I giochi sopra parlano di arte (i primi due) e di oggetti come visione (gli altri tre) e dell’estrema necessità che abbiamo di tornare a goderne. Ne abbiamo tutti bisogno. Intanto possiamo cominciare proprio da questi videogiochi.

Questo articolo è apparso su ludicamag.com

Alphaville e il Weltschmerz sul balcone

C’è una città (virtuale) che ho recentemente visitato che mi ha fatto paura più di tutte le altre. E’ appena abbozzata in stile low poly, non ci sono dettagli fotorealistici, non è popolata da zombie, mutanti o robot multiformi e i suoi colori tendono verso innocue e quasi rilassanti sfumature pastello. Eppure il viaggio è stato talmente potente che difficilmente riuscirò a togliermela dalla testa. Si chiama Alphaville (prima di una serie lunghissima di piccole citazioni letterarie, cinematografiche, musicali, politiche) e quella che in un passato recentissimo fu probabilmente una città produttiva, piena di grattacieli e gente ora non è altro che un desolato campo da golf. 

Siamo soli [cit.]

Sulle sue macerie infatti vengono a giocare i ricchi abitanti di Tesla City, colonia marziana popolata dai pochi sopravvissuti alla Grande Catastrofe. Percorrono 54,6 milioni di chilometri solo per mandare una pallina in una buca (per analogia, se pensiamo che anche oggi c’è chi si fa due ore e mezza di jet privato solo per andare a cena, tutto rientra nella normalità). Tra un tiro e l’altro ammirano sullo sfondo ciò che resta dell’umanità. Palazzi sventrati sui quali ancora brillano le scritte al neon rosa fluo, carrelli della spesa ammassati come montagne, container che una volta contenevano merci provenienti da ogni angolo del pianeta ora fungono da base per le deiezioni esageratamente abbondanti e chimiche dei gabbiani. Ogni tanto si incontra anche qualche animale, unici superstiti. Una mucca dalle mammelle radioattive, dei topi dagli inquietanti occhi rosa, una giraffa albina (altra citazione) o dei simpatici scoiattoli che non vedono l’ora di mangiarsi palline da golf. 

Mentre il mondo cade a pezzi [cit.]… qualcuno se ne vola via

Quello che fa più impressione di Alphaville è che pur se stiamo parlando di distopia, questa è talmente vicina a noi che la si può quasi toccare. Non a caso ci sono moltissimi riferimenti all’attualità e alla politica. Solo due esempi: la colonia marziana si chiama Tesla City (Elon ci sei?) e su un palazzo campeggia la scritta COVFEFE (Trump ci sei?). Giocare a golf sui resti di Alphaville è ciò che dovrebbero fare tutti i negazionisti del cambiamento climatico. Volete farvi un giro in un museo che una volta era rifugio per l’arte e ora ha solo cornici vuote e una statua di Afrodite con un cellulare in mano che si fa un selfie?  Volete vedere fusti di scorie radioattive sotterrati che rilasciano i loro miasmi nell’acqua una volta potabile? Avete veramente voglia di vedere migliaia di valigie abbandonate perché chi è riuscito a partire verso Marte è solo l’1% della popolazione mondiale? Tra l’altro pur non vedendo mai con i nostri occhi come se la passano i coloni marziani, possiamo intuire dalla suadente voce dello speaker di Radio Nostalgia From Mars (RNFM per gli amici) che stanno una merda! La doccia dura appena 30 secondi, l’acqua potabile altro non è che pipì riciclata, bisogna prendere una pillola per la densità ossea, viene imposta la mappatura genetica e il matchmaking tramite algoritmi, il cibo secco va reidratato, bisogna bere una bevanda “calmante” chiamata O’MASS. Wow che vita!

Chega de saudade [cit.]

E’ proprio RNFM, la colonna sonora diegetica che accompagna il giocatore di golf dentro al suo casco, a dare le informazioni su ciò che era la vita su Alphaville e ciò che è ora su Tesla City. Lo fa attraverso le canzoni (tutte originali), gli interventi dello speaker e le testimonianze dei radioascoltatori. Queste sono la parte più straordinaria di tutta l’esperienza. Persone da tutto il mondo raccontano e condensano la loro personalissima vita in storie tanto intime quanto toccanti che durano appena qualche minuto. Mai in un videogioco credo ci sia stata un’implementazione così coesa, funzionale, logica, del sottofondo musicale. E’ un flusso continuo di informazioni che solo la voce riesce a dare e le fissa nelle nostre menti mentre cerchiamo di fare entrare la pallina in una buca. Chiamarlo sottofondo in questo caso è assai riduttivo perché RNFM è la base su cui si poggia tutta la costruzione del gioco. Senza di lei resterebbe un mediocre giochino di golf. Invece RNFM contestualizza tutto, fa da collante tra un passato distrutto e un futuro claustrofobico. La radio non ha ricezione quando andiamo sotto terra, si ferma quando ci togliamo il casco, riparte da dove abbiamo interrotto quando ricominciamo la partita. Grazie a RNFM Alphaville si trasforma in un gigantesco Weltschmerz, quel dolore cosmico e quella stanchezza del mondo tanto cara a Heinrich Heine (di cui verrà letta proprio una sua poesia in lingua originale). Alphaville è un inno alla nostalgia per i tempi perduti, alla saudade, alle cose che non ci sono più. E questo fa paura, molto più di uno zombie o di un E.M.M.I.. 

Anche qui c’è una citazione, ma non è musicale, la sapete?

PS. il gioco si chiama Golf Club: Wasteland, costa una cazzata e per me è il GOTY 2021

Moncage è Gorogoa condensato dentro un cubo

Se c’è una cosa su cui alcuni videogiochi recenti, in particolare i puzzle game, hanno puntato, è quella di spronare il giocatore a guardare le cose da un punto di vista differente. Fargli cambiare prospettiva, indurlo a percepire qualcosa di diverso da ciò che sembra ovvio e scontato, aiutarlo a creare dei collegamenti improbabili tra oggetti apparentemente imncompatibili, farlo perdere dentro delle meravigliose illusioni ottiche.

Ho giocato diversi titoli che basano tutto il loro fascino su quanto appena detto. Mi vengono in mente l’ottimo Vignettes, il meno riuscito LOVE a puzzle box filled with stories, l’onirico Superliminal; ma indubbiamente l’esponente più importante è Gorogoa.

Scomodare l’opera prima di Jason Roberts e considerata da molti come uno dei puzzle game più geniali ed originali degli ultimi tempi, potrebbe sembrare un po’ azzardato. Invece Moncage non sfigura affatto, perlomeno dal punto di vista dei raffinatissimi puzzle e della costruzione di un mondo credibile racchiuso nelle cinque facce di un cubo (una è quella su cui poggia e non sarà mai visibile). Più volte mi sono ritrovato ad esclamare “WTF” di fronte alle trovate degli sviluppatori di Optillusion. Certo da un punto di vista puramente artistico Moncage non può assolutamente rivaleggiare con Gorogoa, ma nulla toglie che non possa venire apprezzato da un certo tipo di pubblico che ama un’esperienza breve ma intensa, stimolante e ricca di dettagli e con una delicata colonna sonora minimalista a cura di Berlinist (quelli di Gris per intenderci).

Tutto parte da un cubo contenente una macchina fotografica. Questo oggetto ormai caduto in disuso non è una scelta casuale in quanto viene usato come pretesto per dare il via ad una serie di ricordi. La macchina fotografica tornerà in moltissime occasioni, così come altri oggetti ricorrenti e metaforici: la farfalla, un orsetto, un faro, un papavero e la gabbia da cui il titolo. Ruotando il cubo si potranno vedere le diverse facce che contengono alcuni diorami. Lo scopo del gioco è quello di collegare i diversi elementi di ciascuna faccia (apparentemente incompatibili) in modo da farli combaciare e sbloccare altri oggetti o nuovi diorami. Per aiutarci in questo difficile compito, alla pressione di un tasto si potranno illuminare solo gli oggetti con i quali si può interagire. All’inizio si avrà a che fare con due facce del cubo e pochi elementi accoppiabili ma mano a mano che si avanza le cose si complicano e ci si ritroverà a dover combinare anche quattro facce contemporaneamente ed in sequenza. Come dicevo gli enigmi sono molto ben congegnati anche se alcuni li ho trovati un po’ forzati e ho avuto bisogno di ricorrere agli aiuti. Il gioco è abbastanza clemente in questo senso perché dopo un po’ di tentativi a vuoto ci proporrà di avvalerci dei suggerimenti, prima in maniera generica, poi più specifica, infine ci farà vedere il video di come risolvere l’enigma.

Moncage ha da dire qualcosa anche dal punto di vista narrativo. I protagonisti sono un padre e suo figlio, ma non ci sono parole a supportare la storia. E’ una narrazione ambientale che si muove parallelamente su due piani. Da una parte i diorami stessi, pur se disabitati, raccontano la storia attraverso le stanze e gli oggetti che di volta in volta animeranno le facce del cubo. Dall’altra, delle fotografie molto ben nascoste all’interno dei diorami, ci faranno vedere i momenti salienti della vita dei due protagonisti, dall’infanzia giocosa ad un presente meno roseo funestato da eventi bellici.

Uno dei diorami più belli ad esempio è, a mio avviso, quello del bar. Alle pareti ci sono appesi dei quadri con le illustrazioni di una mela, una rondine e poi un bersaglio delle freccette e tante bottiglie. Quando riusciamo a riempire un boccale di birra e ci guardiamo attraverso, la rondine si trasforma in un cacciabombardiere, la mela in una bomba, il bersaglio delle freccette in un tiro a segno e le bottiglie sono granate o proiettili. Davvero una trovata ad effetto per condannare l’alcol che invece di far dimenticare distorce, annebbia e porta a galla i traumi. Che la gabbia del titolo sia proprio una metafora del potere che alcuni ricordi negativi possono avere su di noi e dai quali non riusciamo a liberarci? Come Gorogoa si finisce in un paio d’ore o poco più, ma chiudendo un occhio sull’estetica low poly che non è proprio il massimo, rimane comunque un gioco che mette il giocatore di fronte ad alcuni enigmi molto ben strutturati e vuole raccontare una piccola storia familiare. Per me è promosso, non supererà il maestro ma ha imparato la lezione e l’ha fatta sua (vero Chicory?).

UNA NOTTE AL MUSEO… DEI RADIOHEAD

Seguo i Radiohead dal loro esordio, li ho visti dal vivo diverse volte e Jonny Greenwood è mio vicino di casa (non scherzo). La loro musica ha fatto da colonna sonora a gran parte della mia vita, da quando diciannovenne cantavo a squarciagola Creep, ventiquattrenne suonavo le intricate linee di basso di Paranoid Android, ventisettenne rimanevo spiazzato dalla virata elettronica e free jazz di Kid A e Amnesiac. Poi piano piano li ho abbandonati. Hanno preso una piega troppo concettuale, altezzosa, in continua contrapposizione con tutto ciò che può essere definito “pop”, ordinario, di massa. A cominciare dal Thom Yorke che frequenta artisti underground (Stanley Donwood) e sembra sentirsi più a suo agio come ballerino di danza contemporanea (Anima).

“OMG who’s this guy screaming like that?”

Anche Jonny Greenwood non scherza: firma quasi tutte le colonne sonore dei film di Paul Thomas Anderson e scrive composizioni per organo antico con tre note da 5 minuti ciascuna. Niente di male per carità, ognuno insegue la propria indole artistica e ideologica, ma quando questa arte diventa elitaria o accessibile a pochi semplicemente perché i molti non hanno le competenze e gli strumenti per riconoscerne o leggerne le qualità, allora si sta facendo un’operazione puramente autocelebrativo solo per addetti ai lavori. La prima cosa che ho pensato quando ho saputo che i Radiohead avrebbero lanciato un loro “videogioco” prodotto da Epic è stata: “ok ci risiamo, sarà il solito esperimento artistico usando un medium nuovo”. Beh cari miei Radiohead, i videogiochi sono in giro da una sessantina di anni e no, forse non ne avevamo bisogno, ci bastava la vostra musica e non un museo virtuale di arte contemporanea onanistico con tanto di catalogo e shop finale (in realtà spammato per tutta la durata del gioco) con prezzi da capogiro! Ma andiamo con ordine.

Non avete sempre desiderato anche voi un servizio da tè per due a sole 185 sterline? Praticamente un regalo (ai Radiohead)

Ho scaricato gratuitamente Kid A mnesia Exhibition dall’Epic Store e l’ho lanciato. Davanti a me un muro di cemento con la scritta KID A MNESIA. Mi giro e mi rendo conto di essere in una foresta di alberi spogli ed in lontananza si scorge una lucina rossa. Dopo pochi passi sono di fronte alla porta con la lucina che altro non è che un sensore di movimento che la fa aprire al nostro passaggio. Salgo un paio di scale e iniziano le note di piano dell’intro di Everything is in the right place. Brividi. Ci sono ricascato. Mi hanno fregato ancora una volta questi ragazzi. 

Gironzolando si può incontrare qualche losco figuro

Prima di entrare nel corridoio di monitor RGB alla fine delle scale c’è la spiegazione di come vivere l’esperienza. Viene messo subito in chiaro che “questo non è un gioco, che bisogna prendersi il dovuto tempo, che alcuni luoghi hanno senso e altri no”. E allora il nostro giro, in quello che altro non è che museo di arte contemporanea che potrebbe essere stato disegnato da Zaha Hadid e infarcito delle gigantesche opere di Anish Kapoor, ha inizio . E’ un susseguirsi di installazioni, di stanze, di esperienze visive e sonore. Saremo risucchiati, fagocitati e risputati in quell’universo distopico e nichilista a cui Thom Yorke e Stanley Donwood hanno dato vita tra il 2000 e il 2001. Un mondo in decadenza, frequentato da figure filiformi che si aggirano sconsolate e senza meta, quasi schiacciate dal peso delle immagini e sovraesposte alle informazioni. Prodromo di quel futuro che a grandi passi sta andando incontro al metaverso e quindi un’alienazione sempre più marcata. Verso la fine imminente dovuta al cambiamento climatico e alla modificazione genetica. Il tutto sotto lo sguardo implacabile di una morte armata di falce.

La morte è una presenza costante, tanto per tirarci su il morale

Kid A e Amnesiac sono i due album che segnano la rottura da un passato che Thom e compagni sembrano voler rinnegare. Dopo l’estenuante tour di Ok Computer si ritrovano sull’orlo del collasso psicofisico. In un piccolo poster dentro ad una cabina telefonica il loro iconico orsetto dai denti aguzzi, affamato di ricchezza e gloria, pronuncia queste parole: “Ho viaggiato in tutto il mondo, sono stato nei migliori hotel, visto le spiaggie più belle e avuto accesso a donne stupende, a champagne e caviale. No, non ne rinnego nessun minuto.” L’orsetto è sempre più affamato, sembra non volersi fermare più. Ad un certo punto credo che i cinque ragazzi di Oxford si siano sentiti molto probabilmente come minotauri rinchiusi in un labirinto, diventato prigione immaginaria del loro stesso successo. Saranno riusciti a trovare la porta che li ha portati fuori? Il testo della canzone Pulk/Pull Revolving doors che troviamo citato sia all’ingresso del museo che in un passaggio sotterraneo è piuttosto esplicativo dello stato emotivo in cui si trovavano.

There are doors that open by themeselves

There are sliding doors

And there are secret doors

There are doors that lock

And doors that don’t

There are doors that let you in 

And out

But never open

There are trapdoors

That you can’t come back from

Quanti tipi di porte esistono? Se lo chiede anche Stefano Gualeni

Kid A mnesia Exhibition non è altro che un walking simulator dove bisogna attraversare porte per entrare di volta in volta in stanze diverse, soffermarsi a guardare ed ascoltare. In un recentissima, breve e gratuita avventura punta e clicca dall’esplicito titolo Doors, Stefano Gualeni mette brillantemente in mostra i vari tipi di porte nei videogiochi e la loro fondamentale importanza sia sul piano del game design che sulle implicazioni filosofiche. Ne individua ben 11 tipologie e molte di queste le ritroveremo proprio in Kid A mnesia Exhibition

Se volete approfondire i tipi di porte nei videogiochi e la filosofia questo è il gioco per voi

Alla fine secondo me Thom Yorke e Stanley Donwood si sono voluti costruire, più che un museo, un mausoleo per custodire nel tempo il ricordo di un momento della loro vita che forse ha toccato l’apice della loro creatività artistica e che purtroppo non tornerà, infarcendolo per di più di memorabilia costosissime per spillare un po di soldi a fan nostalgici che pur di prendersi un tè con le tazzine dei Radiohead saranno disposti ad accendere un mutuo. Io continuerò ad ascoltare ogni tanto i loro CD.

Eccoli qua riuniti (fonte: la mia collezione di cd)