Attack of the Karens: le Karen sono intorno a noi e non lo sapevo!

La settimana scorsa, come quasi tutti i venerdì pomeriggio, entro con mia figlia in un locale tutt’altro che fighetto, una specie di bar/panetteria/drogheria/forno dove fanno pure le serate karaoke. Il posto giusto dove fare una pausa merenda dopo l’uscita della scuola e prima della lezione di danza: le pizzette costano meno di un euro, le bevande te le prendi da solo dal frigo, i proprietari sono alla mano e sorridenti. Di solito è frequentato da giovani che bevono Moretti da 66 alle quattro del pomeriggio o famigliole che si fermano per prendere una pagnotta di pane. Quando ci accomodiamo, il mio occhio cade subito su una figura del tutto stonata. Sullo sgabello del bancone era seduta in posa plastica una signora di mezza età, alta, bionda, con un taglio bob medio (quello che una volta veniva chiamato caschetto, per intenderci) che sembrava appena uscita dall’hairdresser (non chiamatelo più parrucchiere, si offenderebbe). Vestita tutta di nero, con un paio di pantaloni attillati in similpelle e sopra un paio di stivali alti quasi fino al ginocchio, dove risaltavano di un oro accecante le lettere metalliche P O L L I N I. Al braccio una borsa intrecciata di ottima fattura, anch’essa nera, probabilmente Bottega Veneta. Sull’altro polso un vistosissimo bracciale dorato che sembrava un rotolo di scotch, mentre le dita curatissime e laccate giocavano con un paio di luccicanti occhiali da sole di qualche marchio di cui non ricordo il nome. Io ero in tuta e mia figlia col grembiule, ci scambiamo uno sguardo complice e sotto sotto ci chiediamo: e questa chi è? La sua presenza era autoritaria, tutto quel nero e quell’oro erano lì ad indicare potere e lusso e non faceva niente per nasconderlo. Era chiaramente fiera della sua posizione e la ostentava con fare quasi arrogante. Ordina un caffè, poi riceve una telefonata, dà un paio di indicazioni e dopo qualche minuto si palesa una sua amica, leggermente più giovane ma anche lei vestita di tutto punto e rigorosamente in nero! Chiede una Coca, e quando la barista gentilmente le dice di prenderla nella frigo vetrina, interviene subito la sua amica con un sarcastico “Qui purtroppo non ti servono”.

Ecco, avevo di fronte una Karen e non lo sapevo. Le Karen sono dappertutto, non solo in America. Wikipedia le definisce così: “Karen is a term used as slang typically for a middle-class white American woman who is perceived as entitled or excessively demanding beyond the scope of what is considered to be normal behavior and decorum. The term is often portrayed in memes depicting middle-class white women who “use their white and class privilege to demand their own way”. Depictions include demanding to “speak to the manager”, being racist, or wearing a particular bob cut hairstyle.” Le Karen (non necessariamente donne, eh! può essere usato anche per i maschi, vedi Trump e Musk) sono persone che si credono speciali, che tutto debba ruotare intorno a loro, che si arrogano il diritto di lamentarsi anche per cose futili, che sono disposte a sminuire gli altri pur di raggiungere i propri fini. Le Karen non mi stanno simpatiche. Ma non potendo prenderle a schiaffi nella vita reale, ho deciso di sfogare la mia rabbia in un videogioco. Sì, ed è fantastico.

Le origini del meme Karen sono indefinite, ma tra le tante ipotesi ce n’è una che chiama in causa niente popo’ di meno che Nintendo e il trailer di lancio di Switch nel 2016. Ad un certo punto compare una ragazza ben vestita, chic, raffinata, con un taglio di capelli a caschetto, che sta giocando a Super Mario Odyssey nel suo loft fighetto. Quando viene invitata dai suoi amici che stanno organizzando una festa sul terrazzo vicino, non ci pensa due volte, stacca la console dal dock e se la porta dietro, mettendosi a giocare in piedi in modalità co-op con una ragazza, mentre gli altri guardano incuriositi alle loro spalle, con il tradizionale bicchiere rosso in mano. Questa la reazione immediata dell’utente Joematar su Tumblr.

Lei è la Karen della grande N

A otto anni di distanza, il cerchio si chiude. Attack of the Karens è da poco sbarcato su Nintendo Switch, dopo il debutto su Steam a fine 2023. Quindi, se avete come me anche una minima avversione verso le Karen e siete possessori di Switch, non avete più scuse, non vi resta che sbarazzarvene una volte per tutte. In questo shoot ’em up a scorrimento orizzontale, infatti, lo scopo principale è far fuori letteralmente a colpi di laser quattro Karen, mutate in potenti cyborg da un agente patogeno extraterrestre. Abbiamo Tiffany, una imprenditrice che si è fatta da sola e che ha licenziato un terzo del personale solo perché nessuno le aveva fatto un regalo alla festa aziendale; Cassie, una mamma il cui scopo nella vita è accompagnare i figli alle attività sportive, che ha ribaltato un negozio quando ha realizzato che un paio di pantaloni le stavano male; Marva, che crede di sapere tutto e si è fatta un esercito di alligatori; Jordan, una influencer da milioni di follower caduta in disgrazia.

Prima di arrivare alle spettacolari boss fight vere e proprie, però, a bordo della nostra piccolissima navicella X-15, dobbiamo affrontare svariati minion, che una volta abbattuti rilasciano degli anelli. Questi vanno a riempire una barra al cui completamento ci rilascia un power up casuale temporaneo. I minion più grandi e le Karens rilasciano anche dei moduli che servono a potenziare in maniera definitiva la nostra navicella. Una volta tornati al menù principale, possiamo decidere di spenderli in maggiori punti salute, maggiore danno del blaster, maggiore velocità della navicella e maggiore cadenza di fuoco. Altri miglioramenti permanenti che si possono sbloccare sono: uno scudo deflettore, dei potenti razzi, delle sfere in grado di assorbire le pallottole. L’ordine in cui si affrontano le quattro Karen è casuale come casuale è l’area dove le incontreremo. Tutto questo aumenta in maniera esponenziale la rigiocabilità, rendendo praticamente ogni run unica. Ho trovato il gioco molto equilibrato, nel senso che non è estremamente punitivo ma neanche troppo bonario, a patto di riuscire a sbloccare tutti i potenziamenti permanenti. Se le cose dovessero sembrare comunque squilibrate, si può ricorrere a dei modificatori, sia in negativo (Kurse) che in positivo (Kushion) ma devo dire che, anche se non sono un professionista dei bullet hell, sono comunque riuscito a portarlo a termine solo attivando il Kushion +3 di salute. Prossimo obiettivo: finirlo puro. 

La grafica in pixel art fa un uso sapiente di solo due colori: il lilla e il verde declinati in poche gradazioni, oltre al bianco e al nero. Questo rende molto leggibile anche le situazioni più affollate. Per fortuna i proiettili nemici lampeggiano, quindi sono facilmente individuabili, anche se in un paio di occasioni ho davvero perso di vista la mia minuscola navicella letteralmente sommersa dal fuoco nemico. Le Karen sono tutte doppiate in maniera credibile e per un gioco di questo budget è davvero una bella sorpresa. Una piacevolissima colonna sonora chiptune accompagna le concitate battaglie. Ora io mi chiedo: cosa volere di più da un gioco che costa meno di 5 euro? Perfetto in modalità portatile, piccole sessioni da 20-30 minuti, sfida equilibrata, un gameplay solido e soddisfacente, tanta ironia raffinata e calata nel reale, ma soprattutto ho potuto riportare le Karen con i piedi per terra, visto che nella vita reale non sempre si può fare, ahimè.

Snufkin: Melody of Moominvalley e l’ecologia profonda di Arne Næss

Snufkin: Melody of Moominvalley e l’ecologia profonda di Arne Næss

Arne Næss nasce a Slemdal, nei pressi di Oslo, il 27 gennaio del 1912. Tove Jansson nasce a Helsinki il 9 agosto 1914. Nell’immaginario collettivo, i paesi scandinavi offrono foreste incontaminate, montagne, neve, ghiacciai, cieli limpidi e aurore boreali, lunghe giornate d’estate e infinite notti d’inverno. Mi sono fatto l’idea che chi cresce in questi contesti abbia da una parte un rapporto privilegiato con la natura, che è davvero a portata di mano, e dall’altra molto tempo a disposizione per pensare, produrre, creare. D’altronde, qui la settimana lavorativa è tra le più corte in Europa, non ci si deve preoccupare più di tanto del sistema sanitario malfunzionante, della corruzione imperante, o del diritto all’istruzione. I trasporti pubblici funzionano, si fa largo uso delle biciclette, l’energia proviene da fonti rinnovabili. E poi hanno questa parola tutta loro che è hygge, che non trova traduzione nella lingua italiana ma suona più o meno così: “condizione di benessere psicologico, emotivo, ambientale, caratterizzata da una serena disposizione d’animo verso la realtà”.

Snufkin: Melody of Moominvalley è la cosa più hygge che mi sia capitata tra le mani. In ambito videoludico, si usa la parola cozy, o ancora meglio wholesome, per definire questo tipo di giochi. Non ci sono combattimenti, non ci sono punteggi, non ci sono timer, non ci sono game over. Per chi ancora pensa che videogiochi=violenza, beh, mi spiace ma esistono anche esperienze diverse. Nei wholesome game tutto è molto rilassato, a partire dall’art direction che fa largo uso di colori dalle sfumature pastello o comunque dei toni caldi, a cui si aggiunge spesso una colonna sonora dai ritmi morbidi e melodie lo-fi. Nello specifico, le musiche sono affidate nientemeno che ai Sigur Ròs e solo per questo vale il biglietto d’ingresso. Prima di proseguire, devo fare una confessione: a Snufkin: Melody of Moominvalley non ho giocato, lo hanno fatto per me i miei due figli di 8 e 9 anni che si passavano entusiasti il controller ogni dieci minuti cronometrati da Alexa (ormai la usiamo solo per questo e per cuocere la pasta). Io ero dietro a supervisionare e tradurre in tempo reale (il gioco non è localizzato in italiano, forse perché i Moomins sono famosi in quasi tutto il mondo, tanto da avere anche un parco a tema in Giappone, tranne che in Italia?).

Ma torniamo ad Arne e Tove per un momento. Se non sapete chi sono, è giunta l’ora di presentarveli. Arne Næss è stato un filosofo e alpinista ed è conosciuto come il fondatore dell’ecologia profonda. Tove Jansson è stata scrittrice e pittrice ed è conosciuta per aver dato vita ai Moomins. Ora il collegamento tra Tove Jansson e Snufkin: Melody of Moominvalley è quantomeno scontato, ma che cosa c’entra Arne Næss vi starete chiedendo? Ci arriviamo presto.

Arne Næss (1912-2009)

Di sicuro, sia Arne che Tove hanno beneficiato e sono stati profondamente influenzati dall’ambiente in cui sono cresciuti per creare le loro opere e forgiare il loro pensiero. Arne ha scritto molti dei suoi saggi in completa solitudine nella sua baita-rifugio Tversgastein, sulla cima del monte Hallingskarvet. Un luogo estremo a 1500 metri sul livello del mare, spazzato da venti violentissimi, dove la temperatura interna non supera quasi mai i nove gradi, dove il cibo deve essere semplice e nutriente, l’acqua portata a mano da sorgenti distanti duecento metri: tutto diventa prezioso e acquista un valore ben più importante di quanto ne avesse prima. Tove Jansson ha passato per trent’anni tutte le sue estati in un cottage formato da una sola stanza sulla minuscola isola rocciosa Klovharun, nell’arcipelago del golfo finlandese. Qui, con la sua compagna Tuulikki, ha vissuto senza elettricità e senza servizi, a volte anche minacciate da onde altissime e violente. Con loro solo la barca Victoria, con cui andavano a pesca e a volte a prendere provviste. In un saggio intitolato The Island scrive: “L’acqua finisce. Il tetto perde. Un albero sta per essere abbattuto. Un uccello ha rotto la finestra, la rete da pesca è sparita.” La baita-rifugio di Arne Næss e il cottage di Tove Jansson, pur se in luoghi diametralmente opposti (una a 1500 metri l’altra sul livello del mare) condividono il contatto diretto con la natura selvaggia; delle condizioni climatiche difficili se non estreme; l’isolamento e la fuga da ogni distrazione; l’ottimizzazione delle risorse e la predilezione per il riuso e il riciclo. Tove Jansson continua: “Quando sei stata sola per molto tempo, cominci ad ascoltare in modo diverso, a percepire gli organismi viventi e l’imprevedibile intorno a te, e a vedere l’incomprensibile bellezza del mondo materiale in ogni cosa.” 

Tove Jonasson (1914-2001)

Ora che abbiamo abbozzato in quale contesto geografico e antropico Arne e Tove hanno creato la maggior parte del loro pensiero e delle loro opere, possiamo proseguire e approfondire la personale ecosofia di Næss mettendola direttamente in relazione con Snufkin: Melody of Moominvalley, videogioco da poco pubblicato e tratto dalle storie di Tove Jansson. In Siamo l’aria che respiriamo (Piano B edizioni, 2021) Arne Næss elenca gli otto principi su cui si basa l’ecologia profonda. Io ve ne presento cinque e li analizzeremo accompagnandoli a degli screenshot fatti dai miei figli nella loro appassionante partita, svolta in tre sessioni da 1,5 ore ciascuna.

1. Il benessere e la prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra hanno un valore intrinseco. Tali valori sono indipendenti dall’utilità del mondo non-umano per scopi umani.

Alla fine della prima parte del gioco, che serve ad introdurre le meccaniche principali, Snufkin incontra questo cartello. Il Park Keeper (il tizio vestito con l’uniforme simil-militare) ha riempito la valle dei Moomins di parchi con siepi squadrate, fiori disposti in aiuole, fontane, alberi potati dalle forme geometriche perfette, piastrelle di cemento, statue, il tutto rinchiuso dentro ad una alta ed appuntita recinzione in ferro battuto. Ma soprattutto ha cosparso la valle e i giardini di divieti. Divieto di campeggiare, divieto di scarponcini con il tacco, divieto di accesso a tutti gli animali, divieto di fumare la pipa (nelle illustrazioni originali Snufkin ha sempre una pipa in bocca, mentre nel gioco ha un rametto, credo per motivi di rating). Non serve dare valore ad un albero dandogli una forma cilindrica. Infatti, una cosa che può fare Snufkin nel gioco è scuotere questi alberi per farli tornare “selvaggi”, “non-umanizzati”. Ai miei figli è piaciuto tanto questo piccolo atto digital-sovversivo.

2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita contribuiscono alla prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra e sono a loro volta valori in sé.

Nella valle dei Moomins abitano tantissime creature, anche molto diverse tra loro, e quasi tutte convivono in armonia. Ma c’è una figura che gli abitanti temono e dalla quale se ne stanno alla larga. Si tratta di Groke, una grossa creatura solitaria, tutta nera, dai grandi occhi inespressivi e che ghiaccia il suolo al suo passaggio. Forse perché si sente sola ed esclusa è irrimediabilmente attratta dal calore e dalla luce. Questa sua propensione verso il fuoco risulterà utile a Snufkin nel corso del gioco quando si troverà a dover domare un incendio causato della superficialità delle guardie. I miei bambini all’inizio temevano la Groke, sia per il suo aspetto minaccioso, sia perché ad un certo punto ha cominciato ad inseguirli in mezzo alla foresta. Poi, quando hanno capito che la diversità può anche essere utile, è diventata uno dei loro personaggi preferiti.

3. Gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre questa ricchezza e diversità, se non per soddisfare i bisogni vitali.

Come ogni primavera, Moomintroll e Snufkin si ritrovano sul ponte. Ma questa volta non è così. Moomintroll non c’è ad aspettare Snufkin, ma cosa ancora più strana è che il letto del fiume è prosciugato. Sul suo greto si vedono le lische dei pesci morti e intorno alberi rinsecchiti e fogliame di un verde spento. Non tarderemo a scoprire che il Park keeper è il responsabile di questo scempio e che le motivazioni sono tutt’altro che di vitale importanza. 

5. L’attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva, e la situazione sta rapidamente deteriorando.

Il Park keeper non si è accontentato di costruire un solo parco, ma ne ha disseminati tantissimi in tutta la valle. Tocca a Snufkin smantellarli ed accedere così a nuove aree altrimenti precluse. È questa la meccanica principale del gioco. Attraverso fasi stealth e utilizzando anche i suoi strumenti musicali per distrarre le guardie, deve togliere tutti i cartelli di divieto senza farsi catturare. È il momento più action di tutto il gioco che ha tenuto sulle spine i miei figli. Una volta divelti i cartelli, le guardie se ne vanno e Snufkin procede a smantellare tutte le tracce dell’interferenza umana per far tornare la natura ad una situazione primigenia.

7. Il mutamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita (dimorare in situazioni di valore intrinseco ) piuttosto che ricercare un tenore di vita sempre più elevato. Vi sarà una profonda consapevolezza della differenza tra il grande e l’intenso. 

Questo principio sembra essere stato scritto apposta per Snufkin, il protagonista del gioco. Lui è un filosofo, un flaneur che ama le cose semplici della vita, come pescare, suonare l’armonica e camminare da solo di notte, uno spirito libero a cui non interessa possedere cose. Tutto quello che gli serve è dentro al suo zaino e vive in una tenda. In inverno lascia la valle dei Moomin, quando comunque loro vanno in letargo, per poi farvi ritorno in primavera. È un tipo indipendente e la libertà è la cosa più preziosa per lui, ma non si tira indietro di fronte alle responsabilità e ai bisogni degli altri. Scriveva Næss :“Se sei seduto vicino a un ruscello e vedi un piccolo animale che sta per caderci dentro e fai un piccolo movimento con il dito per aiutarlo, in maniera completamente spontanea, senza pensarci affatto, direi che per un momento ti sei identificato con lui”. Snufkin è così, e sono sicuro che ai miei figli sia arrivato un po’ dello spirito di questo ragazzino.  

Mario Porro scrive su Doppiozero a proposito dei saggi e del pensiero di Næss: “Il sé che si espande avverte come primari gli interessi delle altre specie, lascia che gli altri realizzino le loro potenzialità: la protezione della Natura diventa un gesto spontaneo, come la cura di sé.” Credo sia proprio per questo che i Moomins siano forse più attuali oggi di ottant’anni fa e che stanno vivendo una seconda giovinezza. Loro non si preoccupano delle identità di genere, rifiutano il materialismo e il classismo, lottano contro le autorità ingiuste, incoraggiano la libera realizzazione del sé. Snufkin: Melody of Moominvalley è stato il primo approccio che i miei figli hanno avuto con l’universo dei Moomins, ma ho visto un tale trasporto verso Snufkin e gli abitanti di Moominvalley che non avevo mai visto in nessun’altra opera videoludica, letteraria o televisiva. Dovremmo tutti diventare un po’ Snufkin. Che poi assomiglia tanto a Arne Næss.

Questo articolo è apparso su Outcast

Booze Masters: Freezing Moonshine. Content warning: alcol, weirdness e le challenge sui social

Quando ero piccolo, vedevo mio nonno Leonello distillare il mistrà, naturalmente in maniera del tutto illegale. Se fosse nato in America invece che nelle Marche, sarebbe stato additato come un “moonshiner”. I miei occhi innocenti di bambino erano affascinati da quel malridotto alambicco in rame che doveva essere controllato costantemente, anche di notte, per evitare dispersioni di vapore con conseguente compromissione della qualità del liquore a base di anice. Naturalmente non mi era permesso assaggiare il risultato finale, se non quando avevo mal di denti causati da carie: solo allora potevo trattenere in bocca una sorsata di liquido trasparente per anestetizzare il dente in attesa di cure. Nelle Marche praticamente ogni famiglia aveva la sua piccola scorta di mistrà fatto in casa. Era una tradizione che purtroppo già con la generazione successiva (quella di mio padre) si è persa. Forse in maniera preconizzante, quella fascinazione per i distillati e il suo intrigante processo produttivo mi sono rimasti dentro per tanti anni fino a che, anche se non li produco, ora li seleziono e li servo nel mio locale. 

Un impianto di distillazione clandestino dentro una stanza di un motel. Tutto normale no?

Credo che anche gli sviluppatori di Booze Masters: Freezing Moonshine nutrano una forte attrazione verso il mondo della distillazione e in particolare per la vodka, da buoni polacchi quali sono. E non solo. Credo che di quel liquido dal grado alcolico superiore al 40% ne abbiano fatto anche largo uso durante lo sviluppo. Altrimenti non si spiegherebbero quei personaggi fuori di testa, la storia così weird, il game loop incentrato sul coltivare botaniche e verdure ghiacciate per poi distillarle, berne il risultato e accedere a nuove zone, nuove botaniche, nuovi liquori. Se vi è venuta improvvisamente voglia di bere, prendetevi un bicchierino e vi porto con me nel motel La sorpresa.

Questa è l’accogliente reception.

Siamo alla guida di una macchina rossa in mezzo alla neve, la tempesta imperversa, solo alberi e rocce ai lati della strada, nessun segno di insediamenti umani, e solo due utenti stanno guardando la nostra diretta streaming. C’è nulla di più scoraggiante? Si, arrivare in un motel e scoprire che è gestito da un pupazzo di neve chiamato Zero Karoten; che come vicini di stanza abbiamo un professore barbuto in sandali e calzini e un distillatore pazzo di nome Jerry, che per la maggior parte del gioco se ne starà seduto in poltrona congelato; che per cena ci viene servito un piatto di “neve in bianco” e che siamo fottutamente intrappolati in mezzo al nulla a meno che non riusciamo a produrre la vodka più fredda del mondo. Sono queste le premesse per vivere l’esperienza più weird che vi sia mai capitata, vestendo i panni di Quella, una giovane blogger in cerca di storie sensazionali e perennemente in diretta streaming. Nella fin troppo affollata e caotica UI, infatti un riquadro in basso a destra monitora costantemente il numero di viewers e i loro commenti. Perdete un po’ di tempo a leggerli perché ne vale la pena e ogni tanto dispensano pure qualche aiutino. Spendo due parole solo per dire che la maggior parte del tempo la si passa a cercare piantine, interrarle nei rispettivi orticelli, raccoglierne i frutti una volta maturi, portarli nella distilleria, macinarli, aggiungere lievito e altri ingredienti in base alla ricetta da fare, farli fermentare, poi distillare tutto e infine imbottigliare. Una volta bevuto il risultato, si ha accesso a nuove aree, perché magicamente quel liquido ci fa vedere piattaforme che prima non c’erano. Il potere dell’alcol.

Vi presento Quella.

Booze Masters: Freezing Moonshine non è il primo videogioco indie ad avere tra le meccaniche principali quella di produrre, miscelare e servire alcol. Mi viene in mente l’ottimo The Red Strings Club, dove il barman Donovan deve preparare diversi tipi di cocktail per tirare fuori emozioni e informazioni dai suoi avventori. Oppure VA-11 Hall-A, dove in base al tipo di alcolico servito da Jill, le storyline possono prendere pieghe diverse. Anche Afterparty fa uso della meccanica del drinking game per far proseguire la narrazione, solo che stavolta invece che dietro ad un bancone in un futuro cyberpunk, ci troviamo all’inferno nei panni di due amici appena laureati. Ma c’è un personaggio che più di tutti nella storia dei videogiochi verrà ricordato per il suo rapporto con l’alcol: Harrier Du Bois, il protagonista di Disco Elisyum. Come scrive Matteo Lupetti in questo articolo “Nella modalità «Hardcore» i prezzi sono più alti e droga e alcol (e i loro bonus) diventano fondamentali per andare avanti. Diventano, come nella realtà, un’utile via di fuga dalle difficoltà socioeconomiche.”

L’alcol serve a guarire l’anima, dice Donovan.

Ma torniamo a Booze Masters: Freezing Moonshine. Apparentemente è un gioco mediocre, che non eccelle in nessun reparto. La grafica è grezza come una carta vetrata da 40, il gameplay ripetitivo con tanto, troppo backtracking, dialoghi scritti sotto acido che sfociano pure nel razzismo qualche volta, storia surreale e banalotta, sezioni di parkour snervanti. Eppure è un’esperienza che mi ha tenuto incollato allo schermo, che avevo voglia di completare per vedere fino a che punto si spingeva il nonsense. In questo Booze Masters: Freezing Moonshine ha vinto. E mi sono reso conto che è proprio quello che voleva. Anche se tutto sembra sconclusionato e incoerente, il gioco lancia un messaggio forte che forse è sfuggito ai pochissimi che lo hanno giocato (nel momento in cui scrivo queste righe ha solo 60 recensioni su Steam). È una netta critica ad un certo tipo di streaming, dove pur di avere più spettatori, si fa di tutto e non si guarda in faccia a nessuno. Più le “challenge” sono estreme e assurde, più si acquista visibilità. Il contatore di Quella lo dimostra con i numeri: parte con solo 2 spettatori e arriva a più di un milione quando le cose si fanno davvero davvero strane ed estreme. I casi di cronaca sono pieni di esempi nella vita reale purtroppo, ultimo l’incidente di Casal Palocco dove uno youtuber “aveva noleggiato il Suv Lamborghini con l’unico ed evidente fine di impressionare e catturare l’attenzione di giovani visitatori del web per aumentare i guadagni della pubblicità, a scapito della sicurezza e della responsabilità e di conseguenza a procedere ad una velocità superiore ai limiti indicati.” (nel virgolettato le parole del Gip). Peccato che ci abbia lasciato la pelle un bambino di cinque anni. 

L’alcol ha incredibili proprietà, permette di vedere cose che non ci sono.

In questo, Booze Masters: Freezing Moonshine è un capolavoro perchè anche io sono stato uno degli spettatori, anzi ancora peggio, ero io a guidare Quella, a farle coltivare sempre più piante e a produrre sempre più distillati, a berli per accedere a nuove zone e proseguire con l’assurdo, aumentando a dismisura il numero di visualizzazioni. Avevo quel desiderio di spingermi verso il limite e non sono riuscito a fermarmi se non all’arrivo dei titoli di coda. Sono caduto vittima dello streaming virale e solo alla fine mi sono reso conto che, come anche Quella dice qui sotto al professore, le avventure è meglio viverle che documentarle. Booze Masters: Freezing Moonshine 1- Gianni Mancini 0. Scusate, ora vado a bere e il telefono lo lascio a casa.

Lil’ Guardsman: Il tenero amore tra un padre ludopatico e la figlia dodicenne costretta a coprire i suoi turni

Lo metto subito in chiaro: Lil’ Guardsman è un ibrido tra Papers, please e Monkey Island. Non lo dico io ma gli stessi sviluppatori, che tra continui rimandi meta narrativi e rotture della quarta parete lo ammettono candidamente e spudoratamente, come si può evincere dalla schermata sotto.

C’è tutta l’ironia sgangherata dei primi episodi della serie targata Lucasfilm e ci sono le meccaniche principali dell’ormai iconico e citatissimo gioco di Lucas Pope. Solo che in Lil’ Guardsman, invece di un ispettore di mezza età arstotzkiano, impersoniamo una bambina di dodici anni di nome Lil e invece di navigare tra isole caraibiche infestate da pirati fantasma, ci ritroviamo dentro le mura di Sprawl, un villaggio medievale fantasy dove la tecnologia è arrivata molto avanti (un pò come in Nimona, per capirci).

Visto che questa non è una recensione, non mi soffermerò sul fatto che bisogna decidere chi fare entrare dentro le mura del regno di Sprawl o chi tenere fuori; che abbiamo a disposizione strumenti come metal detector, spray della verità, raggi x, una frusta e un anello decodificatore per smascherare eventuali malintenzionati; che possiamo telefonare a tre consiglieri per avere il loro parere; che dobbiamo seguire (o no) per ogni turno di lavoro le istruzioni scritte sul decreto reale; che abbiamo a disposizione solo tre azioni e che alla fine ci verrà assegnato un punteggio da una a quattro stelle. Non dirò neanche che ogni decisione conta davvero e che le possibili diramazioni sono moltissime, con continui plot twist e che l’interesse rimane vivo per tutta la durata del gioco, che viene spezzato anche da momenti in cui c’è libera esplorazione e situazioni più da punta e clicca classico. Non mi dilungherò sul cast stravagante di personaggi che include una vecchietta mutaforma, una assassina alla Freddy Krueger, dei goblin che stanno organizzando una rivoluzione, maghi bramosi di potere, orchesse a dir poco arrabbiate con il loro ex marito, avari vecchietti trafficanti, eccetera, eccetera. Neanche sul potere di riavvolgere il tempo grazie al Chronometer3000, che ci permette di ripetere l’intero turno di lavoro o vagliare di nuovo un singolo personaggio nel tentativo di migliorare la nostra valutazione. E non parlerò dell’ottimo doppiaggio in inglese, del buon livello di scrittura e della piacevolissima direzione artistica fumettosa. No!

In questo pezzo parlerò del rapporto tra Hamish, il padre di Lil, e appunto sua figlia, giusto per restare in tema con la Cover Story di febbraio dedicata al romanticismo. Ci sono piccolissimi spoiler nelle righe e nelle immagini che seguono ma niente di drammatico, quindi, se non avete intenzione di giocare a Lil’ Guardsman, potete proseguire a cuor leggero, se invece ho stuzzicato il vostro interesse, fate a vostro piacimento. L’importante è che leggiate i dialoghi tra i due.

Hamish è un omone barbuto, dal petto villoso, dalle spalle larghe, che porta con sé una spada attaccata al cinturone. Lavora presso uno degli ingressi di Sprawl come guardiano e tra turni estenuanti e gestione familiare, si fa un mazzo tanto. Quando ha bisogno di scaricare la tensione (praticamente sempre) scommette sulle partite di goblinball, lo sport nazionale di Sprawl. Niente di male, direte voi, solo che questo vizietto ultimamente gli è sfuggito di mano, tanto che non si fà scrupoli a mandare la figlia dodicenne a coprire il suo turno per andare a piazzare una puntata “vincente”. Doveva essere solo per un giorno, le cose non andranno proprio così. Anche se all’apparenza Hamish potrebbe sembrare un tipo burbero, poco incline ad esternare i propri sentimenti, rimasto vedovo troppo presto e quindi arrabbiato con il mondo, in realtà è un padre premuroso, gioviale, sempre pronto alla battuta e a sdrammatizzare, che non risparmia abbracci e domande sullo stato emotivo della figlia. Potremmo definirlo un buon padre, a patto di chiudere un occhio sullo sfruttamento minorile, ma d’altronde non ci sarebbe stato il gioco!

Hamish è talmente sincero con la figlia che non si vergogna di ammettere che passa poco tempo con lei e che vorrebbe che le cose fossero più rilassate, ma la frenetica vita medioevale impone ritmi di lavoro sfiancanti e il tempo a disposizione rimane poco. 

Inoltre un sistema capitalistico e cronofago come quello medioevale (suvvia, non è cambiato poi molto in questi mille anni), dove l’inflazione sale e le tasse pure, costringe Hamish a fare gli straordinari e i turni di notte, pur di soddisfare le esigenze della piccola Lil. Ma siamo sicuri che sia quello che Lil vuole? Lei in realtà non ha bisogno di cose materiali, giocattoli, accrocchi, libri, peluche. No, quello che desidera ardentemente è poter giocare con i propri amici, “tirare sassi alle cose”, non avere obblighi e responsabilità, ma soprattutto passare più tempo con suo padre, fare cose da bambina, mangiare cose da bambina, essere una bambina. Per l’età adulta c’è ancora tempo.

Purtroppo, un evento che era nell’aria allontanerà Hamish e Lil, ma il loro rapporto proseguirà in maniera epistolare. Trovare le lettere del padre appena sveglia è la cosa che più fa stare bene Lil. Stesso discorso vale per Hamish, che non risparmia parole di conforto, incoraggiamento e amore verso la sua “sweet pea”, sempre con quella vena di umore e leggerezza che lo contraddistinguono. Lil, d’altro canto, potrà rispondere alle missive del padre con un tono che può oscillare tra il romantico e la barzelletta sporcacciona, al giocatore la scelta. Questo carteggio in tempi difficili e separati è forse la parte più bella di tutto il gioco, è una lezione verso quei genitori distratti che credono che il lavoro, le incombenze burocratiche, i social network, valgano di più del tempo speso con i propri figli. Ma il tempo è davvero l’unica forma di ricchezza irrecuperabile e sperperandolo facendoci governare da varie ossessioni (che sia l’azzardopatia come per Hamish, o anche il workaholism, la social media addiction, il gaming disorder e chi più ne ha più ne metta) non fa altro che erodere questa risorsa così preziosa che abbiamo a disposizione verso i nostri figli. Allora, che siate genitori o figli davanti a questo schermo, invece del “spegni il computer e vai a dormire” di monkeyislandiana memoria, fossi in voi spegnerei lo schermo e andrei a fare quello che Hamish e Lil fanno qui sotto.

Questo articolo è apparso su Outcast

I miei GOTY 2023

Cosa ricorderò del mio 2023 videoludico appena trascorso? Sicuramente giochi molto intimi, poetici e potenti, sviluppati quasi sempre da una singola persona, che mi hanno emozionato nel profondo, che hanno toccato corde non facilmente raggiungibili. Una serie di opere che hanno avuto il coraggio di raccontare storie difficilmente riscontrabili in questo medium e che hanno spesso abbandonato facili e oliate meccaniche ludiche per avvicinarsi più alla letteratura o al romanzo a fumetti.

Partiamo da Mediterranea Inferno, che narra dell’estate post lock down di tre giovani adulti in una assolata Puglia. Visivamente appagante, onirico, teatrale, sopra le righe, queer fino al midollo. Nessuno ha parlato in maniera così forte dei traumi che il covid ha lasciato in una intera generazione già minacciata da un futuro incerto e che cerca rifugio in un passato idealizzato. Lorenzo Redaelli si conferma un grande ammaliatore, capace di partire da esperienze autobiografiche e autoctone per poi allargare l’orizzonte con estrema facilità.

Anche in Videoverse ci sono dei giovani chiusi nelle loro camerette, ma stavolta a tenerli segregati non è  un virus bensì una console dei primi anni 2000. Lo Shark fa girare videogiochi ma soprattutto l’omonima Videoverse, una chat in cui si possono fare conoscenze virtuali, pubblicare fanart, commentare (non sempre in maniera appropriata). Lucy Blundell confeziona un Bildungsroman moderno, brillante, commovente e sincero e lo fa ricostruendo una credibile app di messaggistica con solo due colori.

Di solitudine parla anche Birth di Madison Karrh la cui protagonista si ritrova in una grande città abitata perlopiù da uccelli antropomorfi scheletrici. Ci sono poche occasioni di socialità, la gente preferisce chiudersi nei propri appartamenti. Non le resta che costruirsi un compagno, una creatura fatta di ossa, organi e un cuore umido. Birth spinge ed incoraggia il giocatore a fare esperienze con persone reali, a ristabilire quel contatto fisico ed empatico che sembra essersi perso in questi ultimi tempi.

Quello che rende unico Saltsea Chronicles è che più che il vogleriano viaggio dell’eroe, qui assistiamo a un viaggio corale, anzi proprio antieroico. Non si raccontano le gesta sovrumane di un singolo, ma le inquietudini, i dubbi, le speranze, i rimpianti, gli amori, le amicizie di un gruppo sgangherato e improbabile di marinai/e che navigano quel “mare salato” che ha sommerso la civiltà precedente degli “accumulatori”. Un affresco post capitalista, dove il denaro non ha più nessun valore, e post apocalittico, dove come simbolo supremo si erge la SISAO, fu OASIS, un tempo lussuosa nave da crociera, ora affondata.

Il gioco che però ha segnato il mio 2023 è stato The Wreck. Un titolo difficile da digerire, sicuramente non adatto ad un pubblico che cerca spensieratezza e sollazzo, tutt’altro. Una visual novel dai temi maturi che parla di famiglie disfunzionali, lutti, traumi, del saper lasciare andare, del fine vita, della maternità e genitorialità. Facendo muovere il giocatore all’interno di diorami tridimensionali che altro non sono che ricordi cristallizzati nel tempo, la storia procede in maniera non lineare fino alla difficile scelta finale. Un pugno allo stomaco, anzi tanti pugni allo stomaco, che non possono lasciare indifferenti.

C.Thi Nguyen nel suo recente saggio Giocare è un’arte scrive: “Permettetemi di ricordare che la maggior parte di noi pensa degli artefatti umani possano creare esperienze particolari e che attraverso queste esperienze possiamo sviluppare noi stessi, aiutandoci a imparare come stare al mondo. Non è così strano pensare che le narrazioni ci offrano una formazione emotiva e ci mostrino nuove possibilità. Leggere, guardare e ascoltare molte opere differenti può aiutarci a trasformarci in persone più complete e migliori: attraverso le narrazioni, possiamo ricevere esperienze da altre persone. Queste esperienze possono infiltrarsi nel resto della nostra vita, possono plasmare la nostra esperienza e il nostro modo di stare al mondo. Perché è così strano pensare che anche i giochi, la forma d’arte umana in cui giochiamo con le agency, assumiamo identità pratiche alternative, assumiamo abilità e obiettivi diversi e adottiamo nuovi assetti sociali, possano fare una cosa del genere?”

I miei giochi del 2023 questa cosa la fanno bene, molto bene.

Contro i loop temporali nei videogiochi: potere rinunciare alla perfezione

Contro i loop temporali nei videogiochi: potere rinunciare alla perfezione

Nel mezzo c’è tutto il resto

E tutto il resto è giorno dopo giorno

E giorno dopo giorno è

Silenziosamente costruire

E costruire è sapere

è potere rinunciare alla perfezione

Quando Andrea Maderna mi ha proposto di parlare di un gioco dal titolo A perfect day ho titubato un po’. La domanda che subito mi è venuta in mente è stata: esiste davvero un giorno perfetto? La risposta migliore mi è venuta da Niccolò Fabi che l’ha messa in musica in quel capolavoro che è Costruire, dove con una melodia in tre/quarti ci svela che per vivere sereni bisogna sapere rinunciare alla perfezione e costruire giorno dopo giorno. E già per il povero gioco in questione le cose partono con il piede sbagliato. Poi come faccio ormai di solito sono andato a sbirciare su How long to beat quante ore fossero necessarie per portarlo a termine. La stima era di 24 ore, guarda caso una giornata intera. Altro punto a sfavore. Chi mi legge da un po’ di tempo sa che gioco principalmente a titoli con un forte impianto narrativo e la cui durata non supera quasi mai le dieci ore. È un limite che mi sono imposto e che trovo ragionevolmente sufficiente per riuscire ad intrattenermi senza scivolare nella pesantezza e ripetitività. Se un disco lo “consumiamo” in un’ora, un film in due ore, un libro di 60.000 parole in meno di 4 ore, perché continuiamo a scandalizzarci o ad urlare contro gli sviluppatori se un videogioco dura meno di 20-50-100 ore? Mi piacciono esperienze concentrate, non diluite, ben a fuoco, con pochi personaggi tratteggiati bene. Mi son detto “e che sarà mai, per una volta facciamo uno strappo alla regola, magari scovo un capolavoro dimenticato da tutti”. Poi, dopo neanche un’ora di gioco, arriva come una doccia fredda quello che non avrei mai voluto: la meccanica principale del gioco è un maledetto loop temporale. Ho sbroccato.

Tipo così.

Da un po’ di tempo questa cosa sembra essere sfuggita di mano. Sarà per il successo dei roguelike e rougelite che altro non sono che loop temporali mascherati (ma neanche tanto) in cui si intrappola il giocatore nella ripetizione ossessiva di run su run che valorizzano il fallimento come stile di vita (!) solo per migliorarsi (!) ed essere più preparati la volta successiva (!). D’altronde i primi videogame su cabinato erano essi stessi dei loop dove però per ricominciare bisognava inserire una monetina. Se volete saperlo, ho abbandonato Hades, ancor prima Dead Cells, e in Loop Hero credo di non essere andato oltre i 30 minuti di gioco. Ora, sia chiaro che questo è un mio problema, e che non mi sto scagliando contro tutti i videogiochi che usano questa meccanica, ma a me è davvero venuta a noia, anzi non è mai entrata nelle mie corde, non c’è engagement, per usare una parola figa. Perché mi dovete costringere a rivivere gli stessi scenari, gli stessi dialoghi, incontrare gli stessi personaggi, rifare centinaia se non migliaia di volte la stessa cosa? Non è la vita reale già abbastanza circolare? Alzarsi, andare a lavorare, mangiare, dormire, consumare, ripetere da capo. A questo punto userò il povero e sfortunato A perfect day per fare un discorso più generale sull’uso dei time loop e perché secondo il mio modestissimo parere, hanno rotto i coglioni.

All’ennesima volta che ho visto Zagreus uscire dalla pozza di sangue ho risbroccato.

La trama di A Perfect Day ruota attorno a un bambino delle elementari di nome Chen Liang e al suo desiderio di vivere la giornata perfetta. La scuola termina inaspettatamente presto, così Cheng Liang coglie l’occasione per consegnare a Ke Yun, una ragazza della sua classe, una cartolina di Natale. Ma è l’ultimo giorno del 1999, quindi è decisamente in ritardo. Purtroppo, le cose non andranno come previsto, che si tratti di Ke Yun, dei suoi amici o della sua famiglia. Tutti hanno qualche problema da risolvere, che sia uno pseudo Game Boy rubato, un divorzio imminente, debiti di gioco da saldare. Al giocatore, e quindi a Chen Liang, spetta il compito di far sì che le cose si mettano a posto utilizzando in maniera corretta le informazioni e gli oggetti raccolti nei loop temporali. Il gioco è fastidiosamente ripetitivo (e ti credo è un loop!), legnoso, dalle meccaniche fumose, con una UI che definire imbarazzante è un complimento e come se non bastasse ha crashato diverse volte sulla mia Switch. Ma al di là di questi aspetti puramente tecnici, il setting poco interessante (una nostalgica Cina in bilico tra un passato fatto di povertà e fatica e il nuovo millennio che promette modernità e ricchezza) e una scrittura tutt’altro che raffinata, quello che non mi è andato giù è proprio l’espediente narrativo del loop temporale. 

La mia espressione facciale quando scopro che c’è un loop temporale nel gioco.

In 12 Minutes (ne abbiamo parlato qui) mi sono ritrovato intrappolato in un appartamento claustrofobico e venivo ucciso appunto ogni 12 minuti. Che stress, lasciatemi morire una volta e basta, non voglio svegliarmi solo per ritrovarmi nello stesso posto e rivivere le stesse cose. Gli orizzonti si allargano a Blackreef ma la fine in Deathloop (ne abbiamo parlato qua) è la stessa. Morire per rinascere, imparando ogni volta qualcosa di nuovo. Di minuti ne servivano 22 in Outer Wilds prima che l’intero universo collassasse, rewind veloce e oplà pronti per scandagliare per l’ennesima volta  in lungo e largo un intero sistema solare. Clamorosamente non ho terminato nessuno di questi giochi e non me ne vergogno. Ho solo un piccolo rimorso per Outer Wilds, ma credo che il messaggio ultimo mi sia arrivato comunque: meglio sdraiarsi su un’amaca, arrostire qualche marshmallow e godersi lo spettacolo finchè si può. (Per chi volesse approfondire il tema della morte nei videogiochi vi rimando a un mio articolo su Ludica). Sarà forse per la brevità del loop di solo 60 secondi, il gameplay delizioso e la grafica a 1 bit che sono riuscito invece a portare a termine Minit. Alcune congiunzioni astrali favorevoli, l’ambientazione storica interessante e i dialoghi scritti davvero bene mi hanno permesso di arrivare ai titoli di coda anche di The Forgotten City. Per una volta non ero io a morire e quindi anche in Overboard! sono riuscito a farla franca. Con A Perfect day non ce l’ho proprio fatta. Non mi interessa assolutamente risolvere le paturnie di un ragazzino delle elementari che crede che tutto si può aggiustare. Non lo trovo educativo e francamente questa continua tendenza alla perfezione, alla performance, che solo fallendo si può crescere e migliorarsi, mi risulta stucchevole. A volte il fallimento c’è e te lo tieni. Il game over arriva e puoi anche smettere di giocare. Non comprendo chi insegue con ostinazione run perfette, chi platina i giochi, chi speedrunna. A una società sempre più performante e veloce, che cerca di mascherare la morte anche attraverso i respawn continui nei videogiochi, io preferisco ancora la linearità, da A a B con i miei tempi, senza pressioni e senza trofei. Non devo dimostrare niente a nessuno. Byung-Chul Han ne La società della stanchezza scrive “per poter funzionare meglio, ci ottimizziamo fino alla morte.” È questa la terribile verità. La continua ricerca della perfezione non fa altro che portarci verso il burnout e la morte. Rompere il loop vuol dire riuscire a mettere tutto a posto, rendere tutto perfetto e ottimizzato ma non è altro che un terribile inganno, un’illusione. Inoltre trovo la meccanica del loop temporale un espediente narrativo per sviluppatori pigri, un escamotage per riciclare ambientazioni e dialoghi allungando un brodo che potrebbe essere finito in molto meno tempo. Non è un caso che i miei videogiochi preferiti di quest’anno siano quasi tutti visual novel e puzzle game. Sto invecchiando e anche questo è un chiaro segnale.

Gabbro miglior NPC di sempre.

In conclusione, A Perfect Day è un’esperienza di gioco affascinante e memorabile che unisce con successo nostalgia, strategia e una narrazione commovente. È una testimonianza della creatività e dell’ingegno degli sviluppatori di giochi nel creare storie uniche e coinvolgenti. Che tu sia un appassionato di giochi a loop temporale o semplicemente ami una storia commovente, A Perfect Day è un must-play che ti lascerà con un sorriso sul viso e una sensazione calorosa nel cuore.

Non sono impazzito, leggi sotto.

Il paragrafo qua sopra l’ho fatto scrivere a ChatGPT che ha un’idea completamente diversa dalla mia. Pazienza. Bisogna saper rinunciare alla perfezione.

Questo articolo è apparso su Outcast

The Case of the Golden Idol giocato a mezzanotte, su un Frecciarossa Milano-Ancona in ritardo di oltre due ore

Scrivere racconti è più difficile che scrivere romanzi. Scrivere racconti non lineari che si svolgono nell’arco temporale di quarant’anni nel diciottesimo secolo lo è ancora di più. Complichiamoci la vita e farciamo i racconti con intrighi, omicidi, sette segrete, lotte di classe, esoterismo. Bene ora che le cose sono belle mescolate e ingarbugliate, togliamo di mezzo i nomi dei protagonisti, le motivazioni che hanno spinto Tizio ad uccidere Caio, l’arma del delitto e diamo in mano al giocatore la facoltà di mettere i tasselli giusti al posto giusto. E solo alla fine rendersi conto che i racconti sono tutti legati da un filo conduttore. Questo è The Case of the Golden Idol.

Un cavallo che corre leggiadro lungo le sponde di un lago, una libreria, uno scrittoio e… un morto!

Nel mondo dei videogiochi raccontare una storia corale attraverso singoli episodi apparentemente slegati tra di loro non è sicuramente una novità. Prima di iniziare The Case of the Golden Idol avevo guarda caso appena finito di giocare Live a Live uscito nel 1994 ma recentemente riportato su Switch. Qui le storie sono otto e lontanissime almeno temporalmente tra di loro. Si va infatti dalla preistoria fino al lontano futuro passando per il Giappone del periodo Edo e il Far West, ma tutte sono accomunate da qualcosa che si scoprirà nel finale. Oppure, mi viene in mente il bellissimo e calviniano If on a winter’s night, four travelers o ancora il poetico The Lion’s Song. Quello che però differenzia fondamentalmente i titoli sopra da The case of the Golden Idol è che nei primi tutto è già stato scritto, e per sbloccarlo basta fare dei combattimenti a turni o risolvere dei piccoli enigmi mentre nell’ultimo, pur essendo consapevoli dell’inganno, abbiamo la fortissima impressione che siamo noi a ricomporre e quindi scrivere la storia, ci sentiamo parte integrante del processo creativo.

Ecco cosa intendo quando siamo noi a scrivere la storia.

Nel Settembre 2021 mi è arrivata una mail da una agenzia PR che aveva visitato il mio blog Vitagiocata (!) per chiedermi se volevo provare in anteprima la demo di The case of the Golden Idol, dato che avevo scritto un articolo in cui tessevo le lodi di The return of the Obra Dinn. Ho risposto gentilmente che purtroppo non avevo molto tempo, e che non ero sicuro di riuscire a provare il gioco. Mi mandarono comunque la demo. Non ci misi mano subito e quando lo feci, fu in maniera un po’ svogliata. Pur riconoscendo il buon lavoro svolto sia a livello investigativo che grafico, non era riuscito ad entrare pienamente nelle mie corde. Solo ora che è uscito su Switch – completo anche del primo DLC che va ad ampliare l’arco narrativo – ho capito il perché: non avevo il quadro d’insieme.

La difficoltà per uno scrittore di racconti è quella di creare un legame col lettore nel giro di pochissime righe. Il tempo a disposizione è poco, non si possono approfondire i personaggi e gli scenari, e il finale spesso rimane aperto; si tratta, se vogliamo paragonarlo ad un altro mezzo espressivo, di una fotografia, un’istantanea che cattura solo un preciso momento. The case of the Golden Idol si muove per istantanee e ne scatta undici più un epilogo (a cui si vanno ad aggiungerne tre del DLC The Spider of Lanka). Avendo giocato solo le prime due nella demo non ero riuscito a collegare il fatto che, nonostante siano dodici racconti, questi vanno a formare un romanzo. I singoli fotogrammi una volta ricomposti, assimilati e collegati si trasformano in un film. Un gran bel film. Solo che lo sceneggiatore, scrittore o investigatore che dir si voglia è il giocatore stesso, e questo compito è tutt’altro che facile.

Qui non muore nessuno, anzi ci si diverte. Aspetta, però, chissà cosa c’è al piano di sopra?

I due fratelli lituani Andrejs e Ernests Klavins dietro a Golden Idol non hanno mai nascosto che la loro maggiore fonte di ispirazione fosse stato The return of the Obra Dinn, tanto che lo stesso Lucas Pope in un tweet ha detto “se avete amato Obra Dinn sono sicuro che vi piacerà anche Golden Idol”. Ma mentre Obra Dinn seguiva le vicissitudini dello sfortunato equipaggio sempre nello stesso luogo (la nave mercantile da cui il nome) e più o meno nello stesso tempo, in Golden Idol si sono allargati sia gli orizzonti temporali che spaziali. Se all’inizio tutto questo crea confusione, alla fine, mettendo insieme tutti i pezzi, si dipana davanti ai nostri occhi una storia ben orchestrata, regalando grandi soddisfazioni.

Signora, più che dormire mi sa che ha trovato il sonno eterno.

Il gioco si divide in due fasi ben distinte. Una di esplorazione in cui come in un classico punta e clicca bisogna cercare indizi, persone, armi, e quant’altro. E un’altra deduttiva in cui attraverso il ragionamento bisogna riempire le caselle vuote con nomi, oggetti, moventi e quant’altro. Al giocatore viene lasciata la massima libertà sul modus operandi: si può muovere tra le due fasi in tempo reale, quindi potrebbe in teoria raccogliere la parola e subito sistemarla in una casella. Oppure prima raccogliere tutte le parole (che sono comunque evidenziate da un numero in basso a destra) e solo dopo cominciare la fase deduttiva. Già al termine del primo capitolo, che serve ad introdurre le meccaniche del gioco, le cose si complicano notevolmente. Ci sono moltissimi distrattori, le identità si fanno confuse (maledette maschere!), i luoghi diventano sempre più grandi, i colpi di scena e gli intrighi sempre più machiavellici.

Però, che soddisfazione quando dopo ore di ragionamenti, tutto va al proprio posto. Ma se c’è una cosa per cui ricorderò nel tempo The case of the Golden Idol è il senso di coralità che si respira nel racconto. Tutto ha un significato, a posteriori. I personaggi riappaiono a distanza di vari episodi, impariamo a conoscerli, a conoscere le loro famiglie e più in generale la società in cui si muovono. E quello che ne viene fuori, pur facendo largo uso di elementi fantastici, è una società razzista, colonialista, cinica, approfittatrice, sfruttatrice dove l’aristocrazia e la politica sono completamente slegate dalla vita reale (non è poi cambiato molto, suvvia!). Solo guardando l’immagine da lontano si può avere una visione completa. Ecco perché la demo non mi aveva entusiasmato. Ecco perché scrivere racconti è molto più difficile che scrivere romanzi.

Altrimenti il titolo non avrebbe avuto un senso.

E, comunque, un ringraziamento sentito a Trenitalia, che mi ha “permesso” di finire il gioco e scrivere questo pezzo.

Questo articolo è apparso su Outcast.it

Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly e perché in Italia non capiamo un ca**o di caffè

Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly e perché in Italia non capiamo un ca**o di caffè

Quando in Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly ci chiedono un espresso, dobbiamo preparare probabilmente un double shot o un triple shot servito su una tazza grande. Invece di 7 grammi di caffè, se ne usano 14 o 21. E a giudicare dai sacchettini da 250gr che si intravedono sullo sfondo, non sarà una banale miscela ma sicuramente un monorigine, o ancora meglio uno specialty. Noi italiani abbiamo un terribile difetto: crediamo di bere il caffè migliore al mondo. Non è così. Che poi, come il vino o la birra o l’olio, non esiste UN caffè ma molteplici tipologie di caffè e di estrazioni, ma a questo ci arriveremo più avanti. Quando entriamo in un bar, invece di chiedere “che caffè avete?” ci accontentiamo di un mediocre “mi fà un caffè?”. Errore! Il palato dell’italiano medio è ormai assuefatto da migliaia di caffè bruciati, amari, bollenti, da sorseggiare al volo davanti al bancone di un bar. Spesso corretti con zucchero o latte proprio per mascherare i difetti, o accompagnati da un bicchierino d’acqua per portare subito via lo sgradevole retrogusto. Come ci spiega Antonio Tombolini nel suo recente podcast Coffelines, “se l’espresso ci parla di energia, concentrazione rivolta all’azione, velocità; il caffè filtro ci parla di meditazione, conversazioni, compagnia. Se l’espresso è la rapidità della pausa caffè tra un’incombenza impellente e l’altra; il caffè filtro è il caffè che si fa compagno del nostro lavoro appoggiato alla scrivania accanto al computer o durante una passeggiata o nella prima colazione di una domenica mattina.” Noi italiani, nella maggior parte dei casi, non prendiamo il caffè perché ci piace, ma per la caffeina, come se fosse una medicina da buttar giù con il naso tappato.

La caffeina è la sostanza psicoattiva più abusata al mondo.

Michael Pollan, in Piante che cambiano la mente, arriva a dire che “la caffeina è una maledizione, in quanto ci rende assuefatti in un regime che ci trasforma in lavoratori più arrendevoli e produttivi, accelerandoci in modo da farci stare meglio al passo con l’apparato della vita moderna creato dall’uomo”. La medicina perfetta per il capitalismo, insomma, a basso costo e presente praticamente ovunque. Non voglio tediarvi su quale sia il migliore caffè o il migliore metodo di estrazione. Vi basti sapere che esistono due varietà principali di caffè al mondo: la coffea arabica e la coffea canephora, meglio conosciuta come robusta. La prima cresce solo sopra determinate altezze, ha un corpo equilibrato, aroma intenso, sapore dolce, gusto persistente e sviluppa metà caffeina rispetto alla robusta, che invece risulta amara, meno aromatica, legnosa. Mentre nel resto del mondo si consuma prevalentemente arabica, in Italia ci beviamo principalmente robusta. Tiè!

Una esplicita illustrazione di GGT

Ma c’è un motivo per cui beviamo principalmente robusta o quando va bene una imprecisata miscela. Perché, come dicevamo prima, nel nostro paese, che è anche quello che ha inventato la macchina per espresso, si beve quasi esclusivamente un caffè ristretto, cremoso, da mandare giù tutto d’un fiato, velocemente, in piedi o seduti su scomode sedie di plastica e tavolinetti appiccicosi. Le cose non vanno di certo meglio dentro le mura domestiche, dove i poveri utenti, martellati da pubblicità con brand ambassador hollywoodiani in pigiama e vestaglia, preferiscono sempre di più la velocità delle cialde o delle capsule al rito della moka, della cuccumella o di un caffè filtro che richiede di macinare i chicchi regolando la grana a seconda dell’estrazione preferita, pesare la giusta quantità di polvere, mettere la corretta proporzione e temperatura di acqua e aspettare. In Italia non c’è la concezione del caffè come bevanda da sorseggiare lentamente, per trascorrere del tempo a chiacchierare in compagnia, accomodati su soffici poltroncine in una bella caffetteria, magari piluccando anche una fetta di torta. E pensare che in Svezia (dove per la cronaca si consuma molto più caffè che in Italia) hanno persino una parola per questo rito: fika! Fico, no?

Luci soffuse, comode sedute, fuori piove, due chiacchiere e una bevanda calda. Ah la vita!

In Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly vestiamo per la seconda volta i panni de* barista dietro il bancone del locale di Seattle che apre le serrande solo di notte e le chiude all’alba. Credo che in Italia un locale così avrebbe una vita più che breve. Uno perché non so come un’attività possa sostenersi con solo tre o quattro clienti al giorno che consumano solo una bevanda calda restando seduti per ore a chiacchierare tra loro. Due perché il barista/proprietario si ritrova più a svolgere il ruolo di psicologo che di barman. Avete presente quella meravigliosa serie TV che è Midnight Diner: Tokyo Stories (ne parlammo qui)? Ecco, siamo a quei livelli! Solo che invece di preparare piatti giapponesi, prepariamo tazze di caffè. Per fortuna, come nella serie, ci sono gli habitué.

In una Seattle fantasy e multietnica abitata da lupi mannari, elfi, fauni, vampiri, alieni, umani e così via, dobbiamo servire le bevande richieste dagli avventori ed ascoltare le loro storie. Se serviamo o meno la bevanda giusta, la narrazione prenderà diverse pieghe, fino a portarci a diversi finali. Tornano alcuni personaggi che abbiamo imparato a conoscere nel primo episodio, ma non mancano nuovi clienti. Così come sono stati introdotti due nuovi ingredienti con cui preparare colorate bevande: il fiore rosso dell’ibisco e quello blu del butterfly pea. Quando il cliente ci chiede di preparargli qualcosa, è nostro compito cercare di capire quali ingredienti usare scegliendo tra una base, un primario e un secondario. Oltre a questa meccanica di base, è stata aggiunta una piccola variazione, che consiste nel poter dare anche degli oggetti insieme alla bevanda. Dando l’oggetto giusto al cliente giusto, si sbloccano dialoghi aggiuntivi.

Coffee Talk è frequentato da personaggi variegati, che per la maggior parte potremmo definire hipster. Solitamente gli hipster vanno in cerca di locali nuovi e sconosciuti, li amano e li frequentano, ma quando diventano famosi si spostano in cerca di altro. Coffee Talk non ha questo problema, è tutt’altro che famoso. È frequentato da pochissimi clienti, perlopiù appunto abituali. E mai più di quattro a sera. Ci sono influencer, programmatrici di videogiochi, tassiste, poliziotti notturni, modelli, scrittrici, cantanti. Il bar è il luogo dove si rifugiano durante le loro notti insonni, il fine turno o semplicemente per trovare riparo dalla pioggia incessante di Seattle. Un posto accogliente e caldo dove poter sorseggiare una fumante bevanda, scambiare due chiacchiere e magari fare anche qualche nuovo incontro. Nel bar non c’è il Wi-Fi e le sedute sono davanti al bancone, quindi anche chi è solo può parlare con il barista che è sempre pronto ad ascoltare. Amate leggere con la pioggia in sottofondo e una rilassante colonna sonora lo-fi? Vi piace preparare (almeno virtualmente) caffè, tè, cappuccini, cioccolate, e molto altro, sbizzarrendovi anche con la latte art? Sbavate per una colorata estetica in pixel art moderna? Vi piacciono le storie leggere, contemporanee, legate a temi di attualità ma anche con una morale? Adorerete Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly.

Facciamo una bevanda blu e “zenzerosa”?

Io ho un locale dove tra le altre cose servo anche il caffè filtro specialty a scelta tra due o tre monorigini di provenienza e micro torrefazioni diverse e so che chi apprezza questo tipo di bevanda è propenso al dialogo, alla cultura della lentezza, al buon bere. Se in altre parti del mondo questa tipologia di caffè è data per scontata, nel bel paese “open to meraviglia” fa molta fatica a prendere piede, soprattutto in provincia, dove non c’è il turismo internazionale. L’altra sera è venuto un cliente olandese e quando ha visto che proponevo il V60 mi ha ringraziato dicendomi “you made me happy”. Lo propongo principalmente perché piace a me, ho studiato il mondo del caffè e quando qualcuno me lo ordina al posto dell’espresso, per me è come una piccola vittoria. È come se Davide (il caffè filtro specialty) scagliasse un sasso contro Golia (l’espresso industriale delle grandi torrefazioni). A ben pensarci, anche Coffee Talk Episode 2: Ibiscus & Butterfly è Davide (piccola produzione indonesiana) che cerca di farsi spazio tra i tanti Golia (giochi mainstream). Magari non riuscirà ad ammazzarli, ma i suoi affezionati clienti saranno sempre al bancone ad aspettare nuove bevande e nuove storie. 

RIP Mohammad Fahmi.

Questo articolo è apparso su Outcast.it

Birth: colmare la solitudine

Un gioco esistenzialista che riflette sull’individualità e sulla precarietà.

A partire dal 2020 la parola “distanziamento sociale” è entrata prepotentemente a far parte del vocabolario di ogni cittadino mondiale. Ma al di là dell’insieme di azioni per rallentare la diffusione del coronavirus, questo fenomeno, inteso come perdita del senso di comunità, è in atto da molto prima. La gente è sempre più isolata, soprattutto nelle grandi città. Lo smartworking, la digitalizzazione di qualsiasi attività commerciale, i social network, i servizi di streaming, i videogiochi online hanno accelerato l’allontanamento dalla sfera sociale per cui le relazioni interpersonali sono diventate sempre più vaghe e flebili. Stiamo diventando piano piano tutti hikikomori, nessuno escluso? Il velo che separa il reale dal virtuale si sta squarciando, tanto che secondo Mattia Salvia “siamo sempre vissuti nel mondo reale e siamo sempre stati abituati a pensarlo diverso e separato da quello virtuale; in quella foto, invece, vediamo cadere la distinzione: il virtuale è reale e il reale è virtuale”1. La foto in questione è un meme in cui Mark Zuckerberg cammina in un auditorium pieno di persone con indosso un visore per la realtà virtuale.

Siamo arrivati a digitalizzare le nostre vite, chiudendoci nei nostri appartamenti da cui possiamo lavorare, ordinare il cibo, vedere un film, videochiamare le persone care. Il senso di solitudine è sempre più forte, non basta avere follower o like per colmare la socialità reale e fisica di cui l’essere umano ha bisogno. A questo punto è necessaria una precisazione e dobbiamo far ricorso all’uso dell’inglese, dove il concetto di solitudine è ben distinto in due parole. Una è loneliness, lo stato emotivo negativo contraddistinto dal senso di isolamento. L’altra è solitude, ovvero quello spazio mentale che serve per rigenerarsi, per riflettere ed è qualcosa che si sceglie. La filosofa Hanna Arendt ha riassunto molto bene la differenza in questa frase: “in solitude […] I am “by myself”, together with my self, and therefore two-in-one, whereas in loneliness I am actually one, deserted by all others”. Oggi viviamo quasi tutti in uno stato di loneliness.

Birth (Fonte: screenshot)

Proprio da queste riflessioni prende lo spunto Madison Karrh per gettare le basi del suo Birth. Con questa sua opera ha cercato di rappresentare visivamente lo stato d’animo di chi si trova solo in una grande città e lo ha fatto con un immaginario visivo tanto affascinante quanto inquietante. L’intento di tutto il gioco, che viene anche chiaramente esplicitato nelle primissime schermate, è quello di costruirsi un compagno, un amico fatto di ossa e organi, ma soprattutto dal cuore caldo e umido. Un Frankenstein 2.0 insomma, pur di combattere la solitudine e trovare un po’ di quell’umanità tanto difficile da scovare oggi.

In un’intervista Madison dice di essersi trasferita a Chicago in un mini appartamento-studio e di non essere poi praticamente uscita di casa per quasi un anno. L’impronta autobiografica è molto forte, così come quella autoriale: il gioco è stato sviluppato in circa due anni, in completa autonomia. Ma a dispetto di produzioni molto più grandi, Birth riesce in maniera originale e poetica a veicolare molto bene il messaggio per cui è stato creato. Nonostante tutta la narrazione sia affidata alla forza delle illustrazioni come in un silent book, è proprio da piccoli dettagli che si percepisce lo spaesamento di chi si ritrova a vivere da solo in una città popolata da molta gente.

Birth (Fonte: screenshot)

Sono nato in un piccolo paese di provincia. E ho sempre vissuto qui, nonostante abbia viaggiato abbastanza da riuscire a visitare tutte le capitali europee e città come New York, Tokyo, Los Angeles, Bangkok, San Francisco. La sensazione che provo quando torno da un viaggio in una grande città è di straniamento. Ogni volta mi ripeto che non riuscirei mai a vivere lì. Nel mio paese invece si è preservata quella dimensione comunitaria che non trovo da altre parti. Ho conosciuto in questi anni moltissime persone che si sono trasferite da grandi città nel mio paese o nei comuni limitrofi. Londinesi, francesi, canadesi, milanesi che, stanchi della vita frenetica e caotica, hanno deciso di fare un cambiamento drastico: e infatti le loro abitazioni sono quelle più isolate, spesso alla fine di strade imbrecciate di campagna. Tutti mi hanno confermato però che più del cibo e dell’aria pulita volevano trovare, venendo a vivere qui, il senso di comunità smarrito nei loro luoghi di origine.

Gli abitanti in Birth sono tutti scheletri con teschi dalle sembianze di uccelli. Solo qualche residuo di membra è rimasto attaccato alle ossa ma sono svuotati, non hanno più linfa vitale, le orbite oculari sono vuote o cucite con del filo. Persino i fiori e le piante sembrano essiccate. I loro colori sono tutti virati nelle tonalità autunnali, quando la clorofilla, alla fine del ciclo, smette di scorrere. Gli animali (ratti, uccelli, insetti, cani, serpenti, pesci) sono anch’essi scheletrici e spesso si ritrovano chiusi dentro barattoli o teche di vetro a sottolineare ancora di più l’isolamento. Al contrario la città sembra viva, i palazzi fitti fitti si susseguono uno dietro l’altro quasi senza soluzione di continuità.

Birth (Fonte: screenshot)

Al piano strada troviamo i negozi: una caffetteria, un museo, un generi alimentari, un ristorante, una pasticceria, una lavanderia, un ufficio postale. Luoghi comunque destinati alla socialità. Al piano superiore ci sono gli appartamenti dove si può scrutare, con fare voyeuristico, dentro le finestre di perfetti sconosciuti, solo per scoprire che anche loro sono soli, ognuno perso nel proprio mondo. Sono abitati in genere da un solo inquilino impegnato a leggere un libro, guardare il cellulare, dormire sotto le coperte o restarsene seduto davanti ad un modellino di giostra da assemblare. Il distanziamento sociale di cui all’inizio è tutto qua. Ognuno è indaffarato in attività solitarie tra le quattro mura del proprio appartamento.

L’opera di Meredith mi ha riportato in mente un altro gioco piccolo piccolo disegnato anch’esso tutto a mano da una giovane illustratrice danese di nome Ida Hartmann. Anche in Stillstand si respira a pieni polmoni tutta la loneliness tipica delle grandi città. La protagonista del gioco non si costruisce però un compagno recuperando ossa e organi; fa piuttosto apparire un’ombra di junghiana memoria, con cui poter scambiare qualche pensiero pur di non restare sola. Quello che banalmente entrambe le protagoniste cercano è anche un contatto fisico, che qualsiasi digitalizzazione non potrà mai sostituire o rimpiazzare. In Birth tutti i personaggi non si toccano mai: anche in quelle pochissime situazioni in cui ci sono due individui nella stessa stanza, questi sono distanti.

Birth (Fonte: screenshot)

Non credo sia un caso che in uno dei piccoli puzzle da risolvere (mi rendo conto solo ora che non ho mai nominato le meccaniche del gioco, ma vi basti sapere che è un punta e clicca piuttosto lineare con semplici rompicapi) bisogna avvicinare due mani fino a farle toccare. Così come non credo sia un caso che questo contatto avvenga all’interno di un museo, in una stanza al cui centro si trova un piedistallo con un cuore dentro una teca di vetro. Proprio quel cuore caldo e umido. “L’arte ha il potere di estendere le nostre capacità al di là della nostra naturale dotazione. L’arte compensa certe debolezze innate, in questo caso della mente e non del corpo, debolezze che possiamo definire fragilità psicologiche“2.

Birth è un gioco esistenzialista che riflette sull’individualità, la precarietà e la solitudine. Un memento mori che si serve di un’estetica decadentista e surrealista dalle tinte autunnali color pastello. Birth ci spinge ed incoraggia a fare esperienze con altre persone ma in carne ed ossa, organi e cuore. Come uscire per un caffè o semplicemente videogiocare accoccolati su un divano per un paio d’ore.

Questo articolo è apparso su Ludica

Please, touch the artwork: Mondrian e psicogeografia

Tutti più o meno conoscono i quadri di Piet Mondrian. Il suo personalissimo stile fa parte ormai di un archetipo visivo ed immaginifico. E quando l’arte diventa così riconoscibile e riesce a lasciare un segno, è facile che anche altre attività creative ne vengano ispirate o addirittura se ne approprino in toto.

Nella moda ad esempio un giovane Yves Saint Laurent lanciò nel 1965 una collezione di sei abiti che avrebbero poi preso il nome di “Mondrian dress”, trasponendo le tele del pittore su vestiti di lana e jersey. La ditta italiana di elettrodomestici Smeg ha coperto il suo iconico frigorifero anni ‘50 con linee e colori ispirati a Mondrian (ad onor del vero il verde non essendo un colore primario non sarebbe mai stato accettato dal pittore olandese!).

I creativi pubblicitari ne hanno tirato fuori brillanti campagne, come nel caso della società di logistica artistica Kraft Els Ag, che ammassa alla rinfusa in un angolo i rettangoli colorati e le linee nere: colpa di non aver spedito la tela con loro. Potrei continuare a citare le influenze che Mondrian ha avuto nel mondo del cinema, dell’impaginazione, dell’arredamento, dell’architettura. Ma non siamo qui per questo. Qui analizzerò un gioco che non solo è ispirato a Mondrian, ma che ci fa entrare dentro la poetica del pittore e ci fa toccare con mano la sua arte.

Curves are so emotional

I musei sono sempre più blindati, le opere d’arte sempre più costose, alcune troppo delicate e fragili. E allora via con telecamere di sorveglianza, distanziatori, transenne, rilevatori di presenza e nei casi più estremi teche antiproiettile. Lo sviluppatore indipendente Thomas Waterzooi ci invita invece a toccare con la nostra mano virtuale le opere d’arte esposte nella sua galleria videoludica ispirata al movimento nato in Olanda nei primi anni del ventesimo secolo. Ci farà vivere il processo creativo dietro le opere del De Stijl di cui Mondrian è stato fondatore insieme a Theo van Doesburg.

Please, touch the artwork (Fonte: press kit)

Ad accoglierci ci sarà un maggiordomo che ci chiederà come ci sentiamo e che tipo di esperienza ci piace. Già dalle premesse si capisce subito che il lavoro di Waterzooi è qualcosa che va fuori dagli schemi: in un video dichiara che per questo suo primo titolo ha aderito concettualmente al manifesto Rejecta di Pietro Righi Riva dove uno dei “dieci comandamenti” recita proprio “Tutta la tradizione dei videogiochi in termini di forma, stile e contenuto deve essere respinta”. Al contrario oggi sembra che la tendenza sia quella non solo di reiterare meccaniche trite e ritrite ma anche di tagliare fuori quante più persone possibili dall’esperienza videoludica a colpi di soulslikebullet hell e metroidvania labirintici.

L’asticella della difficoltà si alza sempre di più, tanti sono gli hardcore gamer che cercano solo questo tipo di esperienze al limite del sadico. Resta fuori però una fetta molto grande di utenza che non si avvicina proprio al medium o che se ci si avvicina ha la sfortuna di sbattere contro il muro di gomma dei generi citati sopra. Ho trovato davvero inclusivo il fatto di tarare la difficoltà in base alla nostra stanchezza e di proporre il gioco più adatto in quel momento. Ad esempio quando ho aperto per la prima volta Please, touch the artwork, era in tarda serata, i bambini non erano ancora andati a letto, quindi ho risposto di essere stanco ma allo stesso tempo che mi piacciono i puzzle game. Il maggiordomo, come un sommelier che cerca di interpretare i nostri gusti e la nostra preparazione, mi ha consigliato di partire con The Style, uno dei tre minigiochi all’interno della galleria.

In The Style il nostro compito è di riprodurre il quadro alla nostra sinistra possibilmente entro un numero di “tocchi” stabilito. Non viene spiegata la regola di come il colore si espande sulla tela, ma dopo un po’ di tentativi lo si apprende e lo si interiorizza. All’inizio le cose sembrano piuttosto facili ma nuove meccaniche introdotte nei livelli più avanzati complicano le cose, fino a renderle piuttosto “pasticciate” nelle fasi finali. The Style è dei tre giochi presenti all’interno di Please, touch the artwork quello con la componente puzzle più pronunciata, consigliato a chi ama ragionare ed è disposto ad accetta una sfida ragionevolmente complessa che diventa un po’ frustrante solo nelle fasi finali. Il sottotesto narrativo equipara il processo creativo dell’artista a quello della visione biblica della creazione del mondo. Partendo da una tela bianca (il primo giorno), prima impareremo a creare le linee, poi le croci, poi aggiungeremo i colori primari, infine il bianco e il nero.

Per chi vuole invece un livello di sfida meno impegnativo e più rilassante New York City si presenta come una sorta di Snake per Nokia rivisitato. Dovremmo muovere il nostro quadrato su una griglia fatta di linee gialle a cui si intrecciano linee rosse e blu a confondere le idee. Lo scopo è quello di “mangiare” tutti i quadratini disseminati nel labirintico ordito. Ad ogni quadratino corrisponde una lettera che andrà a comporre una parola o una frase. Solo una volta mangiati tutti i quadratini si aprirà il passaggio per il livello successivo. In New York City l’opera d’arte non è più statica, ma prende vita. Waterzooi usa la poetica di Mondrian per raccontare la sua esperienza personale di un amore a distanza vissuto proprio nella Grande Mela. Mondrian si trasferisce dall’Europa a New York negli anni ‘40, e anche la sua arte ne resta influenzata. Non più linee nere e blocchi di colore, ma linee colorate che si incrociano ad angolo retto, che non solo evocano la pianta della metropolitana, ma rappresentano anche le strade rettilinee di Manhattan, percorse dai taxi gialli e tagliate dal bianco degli isolati.

Please, touch the artwork (Fonte: press kit)

Il terzo gioco all’interno della galleria è Boogie Woogie. Mondrian era un grande appassionato di jazz e un bravo ballerino, frequentatore assiduo di locali notturni. La tumultuosa energia della città lo porterà nella fase finale della sua carriera a spezzare le linee che aveva usato fino ad allora nei suoi dipinti e a frantumarle in una miriade di rettangoli rossi, blu e gialli. Sono le insegne al neon di Broadway, i semafori e le mille luci di New York. Waterzooi costruisce su questo ultimo impianto artistico il terzo e forse meno riuscito dei tre giochi. Woogie è un piccolo quadrato e Boogie la sua cornice. Si amano, si completano a vicenda e vogliono solo incontrarsi. Ma anche qui ci si mette di mezzo la città e la sua architettura fatta di incroci, tunnel, sensi unici. Compito del giocatore è quello di riunirli facendo attraversare a Woogie le strade per arrivare a Boogie.

Lo potevo fare anch’io

In un libro del 2007 Francesco Bonami prova a spiegare perché l’arte contemporanea è davvero arte. Lo potevo fare anch’io è il provocatorio titolo del libro e questa frase sarà stata esclamata (o almeno pensata) migliaia di volte da visitatori distratti di fronte a qualche opera contemporanea in un qualunque museo, galleria o mostra del mondo. Stessa sorte sarà sicuramente capitata anche al nostro Mondrian. Ad un primo e superficiale approccio si potrebbe opinare di stare osservando solo qualche linea dritta e semplici colori primari che riempiono lo spazio. In realtà dietro c’è un percorso durato decenni, di un artista figurativo che ha scelto consapevolmente di andare oltre questo stile e di iniziare a comunicare qualcosa che andasse al di là della forma.

Waterzooi partendo dall’arte di Mondrian ha voluto ricalcare, allargare, rendere interattiva la sua opera. Lo ha fatto in maniera brillante, intelligente, inclusiva, divulgativa. Ha creato un ponte tra l’arte del pittore olandese e le sue esperienze personali. La New York dove lui ha dovuto spostarsi per lavoro, è la stessa in cui viveva Mondrian quasi ottanta anni fa. Ovvero una città caotica, ricca sì di opportunità, ma dove “tutti vanno di fretta, correre, correre, correre, mangiare, dormire, ripetere”.

I livelli di New York City e Boogie Woogie in fondo in fondo parlano di psicogeografia, dello “studio degli effetti precisi dell’ambiente geografico, disposto coscientemente o meno, che agisce direttamente sul comportamento affettivo degli individui”. Chissà se Guy Debord avrebbe apprezzato Please, touch the artwork, perché altro non è che una deriva, e al tempo stesso una critica allo sviluppo e all’utilizzo degli ambienti urbani dispotici.

Questo articolo è apparso su Ludica