Questo dovrebbe essere un pezzo sui momenti “wow”, “che figata”, “non ci credo”, “ma dai, è geniale”, “come ho fatto a non pensarci prima”, “che grafica spaccamascelle”, “che sonoro incredibile, “che storytelling esemplare” eccetera eccetera. Praticamente dovrei scrivere di tutti quei momenti videoludici che mi si sono stampati nella memoria, che stanno ancora là e che a mio piacimento tiro fuori. Tipo le palline colorate di Inside Out che dal labirinto della memoria a lungo termine vengono messe nel tubo pneumatico e una volta tornate in “sala regia” proiettano il ricordo. Io ho un problema. Sicuramente il mio tubo è rotto. Non mi ricordo un fico secco. Eppure di momenti memorabili dovrei averne collezionati a valanghe, visto che videogioco da oltre quarant’anni. Gli scaffali nel mio cervello dovrebbero essere pieni zeppi di palline gialle (gioia) a tema videoludico. Ma vai. Tendo a dimenticare presto. Scongiurando qualche problema neurologico, mi succede anche con le persone. Mi è capitato di incontrare recentemente qualche mio ex compagno/a delle superiori. Ci siamo messi a parlare e mentre loro tiravano fuori aneddoti, nomi, eventi, situazioni, dettagli di oltre trenta anni fa, io li fissavo con sguardo inebetito, provando anche un po’ di invidia perché invece io avevo rimosso tutto. La mia giustificazione (o meglio scusa) è che ho fatto spazio ad altre cose. Ho lasciato il vuoto per accogliere nuovi ricordi cancellando quelli più vecchi. Il mio cervello funziona così, che ci devo fare. Ho poca ROM e ancor meno RAM. Non potrò mai scrivere un pezzo come questo di Babich o questo di Maderna. Riconosco i miei limiti. Ho tentato anche la strada “proustiana”, cercando qualche aiutino (non psichedelico, né chimico, né alcolico) che mi potesse sbloccare i ricordi. Così sono salito nella soffitta dei miei genitori più e più volte durante le festività appena trascorse (cosa che non facevo da anni) e mi sono messo a scartabellare tra scatoloni ammassati e vecchia carta ammuffita alla ricerca di madeleine. Il risultato è questo.
Il mio primo home computer. Non ho avuto la forza di aprire lo scatoloneAlcune scatole tirate fuori a caso. A parte i titoli e il genere di appartenenza non, ricordo una cippa (a dire il vero, Reunion non so proprio cosa sia).Ho provato anche a sfogliare qualche TGM ma niente. E tutti i K penso siano andati al macero!Tipo questa. Penso di aver giocato a Zool ma se allora veniva esaltato con tanto di punto esclamativo come il platform dell’anno, qualcosa mi doveva pur rimanere in mente no?Anche qua buio totale (scusate per le cartucce senza titolo ma non mi andava di girarle).
Oltre ad aver respirato un bel po’ di polvere ed esser quasi morto assiderato, questo tuffo nel passato in cerca di momenti memorabili non ha sortito nessun effetto, anzi ha rafforzato la mia convinzione che bisogna vivere il presente. Non sono il tipo a cui scappa frequentemente la frase “Ah, quelli sì che erano bei tempi”. Anzi penso di non averla mai pronunciata. Ma la verità è un’altra: l’età avanza ed è sempre più difficile meravigliarsi. Nel loro libro Lezioni di meraviglia, Andrea Colamedici e Maura Gancitano scrivono “Se vuoi scoprire nuove terre e decidi di imbarcarti, a un certo punto accadrà questo: sarai sul mare e saprai di avere alle spalle la tua terra, ancora a portata di sguardo, e davanti a te qualcosa di nuovo e pericoloso; se ti volterai indietro potrai ancora vedere i lineamenti di ciò che per te vuol dire casa, sicurezza e abitudine, ma se vorrai scoprire nuove terre dovrai smettere di voltarti e andare avanti, sapendo che, se ti voltassi, vedresti solo il mare. Quello sarà il momento in cui comincerà la filosofia: quando dietro di te non ci sarà più casa, e davanti non ci sarà ancora qualcosa. Intorno solo l’ignoto, pronto a provocare esperienze di incredibile meraviglia, di θάυμα (thauma).” Per consolarmi dal fatto di possedere una memoria fallace, dico a me stesso che sono sempre in mezzo al mare e cerco di non voltare mai lo sguardo verso casa. D’altronde sappiamo tutti cosa è successo a Orfeo e Euridice, no? Anche per questo provo a circondarmi di ignoto. Mi viene in mente un esempio videoludico. Avete presente Passage di Jason Rohrer? Mi sento più o meno come questo mucchietto di pixel qui sotto.
Io dovrei essere quello dietro e la mia compagna davanti.
Ho scavalcato da un po’ (almeno secondo le aspettative di vita del maschio italiano medio) la metà del mio “passaggio” su questa terra e ho deciso di portare con me la mia sposa (e due figli IRL). Mentre all’inizio il futuro era compresso, sfocato e pieno di possibilità, ora mi ritrovo ad aver srotolato buona parte del mio tempo. I capelli mi sono cascati veramente (ma quello era successo già verso i trenta :-)) e ad apparire confuso, ora, è il passato. Per questo, ho voluto provare a dirigermi verso sinistra nella piccola striscia di monitor ma (spoiler) non si ringiovanisce e la fine è sempre la stessa. Conscio che indietro non si torna, l’unica cosa che resta da fare è procedere verso destra, lasciare l’ormai nebuloso passato lì dov’è e tirare dritto verso l’ignoto in cerca di meraviglia finché c’è tempo. Quindi suggerisco qua un po’ di titoli (rigorosamente indie) previsti per questo 2025 o giù di lì in cui spero di trovare nuovi e fugaci momenti memorabili.
NdR: i link a Steam si sono persi nel passaggio dall’articolo originale al blog. Cliccando qui potete recuperarli
***Spoiler Warning: l’articolo presenta alcuni spoiler tematici***
La prima volta che ho avviato Phoenix Springs non ci ho fatto caso. Prima ancora che compaia qualcosa a schermo si sente un suono liquido, come quando si ficca la testa sotto l’acqua in un vasca da bagno. Lo schermo ondeggia impercettibilmente e Iris, la protagonista, ha una posa strana, come se volasse, sospesa in un vuoto nero. Credo che invece stia galleggiando. Questa intuizione è arrivata l’altra notte in un dormiveglia ripensando alle parole apparentemente senza senso e disconnesse pronunciate da una ragazza che stava nuotando in un laghetto: “If you float long enough, the body mistakes gravity for motion”. Al primo playthrough non ci ho capito quasi niente, al secondo le cose sono diventate un po’ più chiare, al terzo ho un quadro d’insieme piuttosto verosimile.
Di una cosa sono invece certo: Phoenix Springs non è un gioco immediato e va metabolizzato piano piano. È estremamente ermetico, volutamente vago e vacuo, fatto più di vuoti che di pieni. Lavora per sottrazione, come uno scultore che toglie invece di aggiungere o, allargando lo sguardo ancora di più, come il tempo tiranno che porta via preziosi minuti, ore, giorni dalle nostre vite. I dialoghi (che in realtà sono quasi monologhi perché pronunciati sempre dalla stessa Iris) sono scarnissimi e la maggior parte delle volte somigliano più a poesie o massime filosofiche. Il mondo di gioco, se all’inizio può sembrare preso da un film neo-noir (città distopica caduta in disgrazia che potrebbe ricordare la Revachol di Disco Elysium) prende inaspettatamente una piega surreale e onirica (un’oasi verdeggiante in mezzo ad un deserto sterminato). È spiazzante, disorientante, carico di simboli, weird and eerie per dirla con il compianto Fischer, e non fa nulla per mettere a proprio agio il giocatore. Anzi, dopo i titoli di coda lo lascia esanime e annichilito, con una quantità enorme di interrogativi e pochissime certezze.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
In questo pezzo ho provato a tracciare una sorta di mappa mentale sulla falsariga di quella che piano piano si forma nella testa di Iris nel gioco. Ho stilato una lista di parole che nascondono un forte significato simbolico e che forse volutamente non sono state approfondite dai tre sviluppatori di Calligram Studio, generando quindi ancora di più senso di spaesamento nel giocatore. Sono indizi che possono aiutare ad entrare nella complicata lore di Phoenix Springs. In questo paragrafo mi limito a dire che nel suo impianto ludico non è altro che un’avventura punta e clicca piuttosto classica, che porta solo piccole novità nel modo di interagire con il mondo di gioco. La più importante tra queste è che non si va in giro a raccogliere oggetti ma solamente le idee di quegli oggetti, che si trasformano in parole e vanno ad occupare e popolare la mente di Iris. Al centro di questa mappa c’è sempre e solo Leo Dormer, il fratello minore di Iris, una giornalista che si occupa di tecnologia.
A mano a mano che Iris trova possibili indizi per proseguire nella ricerca di suo fratello scomparso, questi si inseriscono dentro la sua mente, mentre altri, che momentaneamente non servono più, vengono rimossi. Questi pensieri possono essere oggetti, nomi di persone, acronimi e così via. Abbinando la giusta deduzione al giusto punto di interesse proseguiamo nella storia. Purtroppo pur con questa stilosa innovazione il gioco si porta comunque dietro tutti i “difetti” tipici del genere: rischio di rimanere bloccati, puzzle non sempre chiari, unica soluzione che non prevede alternative, tanto backtracking dispersivo, niente hint system integrato se non un link esterno dopo essersi registrati tramite mail. Dalla sua però Phoenix Springs ha talento da vendere: una direzione artistica fuori scala e originale che fa uso di una palette limitatissima di colori saturi, un doppiaggio incredibilmente monocorde che ben si adatta all’atmosfera inquietante, un sound design altrettanto minimale e disturbante. Ma dove veramente eccelle è nella costruzione di un mondo distopico carico di simboli. Andiamo a vederne qualcuno.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
La fenice
Partiamo proprio dal titolo. La fenice, pur non comparendo mai nel gioco, c’è eccome. Phoenix Springs, che potrebbe ricordare per assonanza un certo Kentucky Route 0, non è una città americana, bensì la latinizzazione del greco phoînix. L’araba fenice, come ben si sa, rinasce dalle proprie ceneri e simboleggia la morte e la resurrezione in un ciclo continuo. Mettiamo subito in chiaro che questo è il tema di fondo del gioco.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
La cicala
Proseguiamo con un altro animale, o meglio un insetto. All’interno della ULS, acronimo per University of Life Sciences dove Leo Dormer insegna bioetica, possiamo vedere in un progetto appeso al muro, proprio la statua di una cicala che suona l’arpa. Questa statua dovrebbe essere piazzata all’ingresso dell’ateneo. Dettaglio apparentemente insignificante che invece rivela subito un altro dei temi portanti del gioco. Infatti la leggenda narra che la dea dell’aurora, Eos, fosse innamorata del bellissimo Titone. Eos lo rapì chiedendo a Zeus di renderlo immortale. Egli la accontentò, ma non donò a Titone l’eterna giovinezza. Accadde così che mentre Eos rimaneva giovane e bella, Titone invecchiava inesorabilmente. Fu allora che gli dei, avendone pena, lo trasformarono in cicala e da allora, la cicala simboleggia l’amore eterno, la trasformazione e l’accettazione del ciclo della vita, mentre il suo canto la vita eterna sull’orlo della caduta, proprio per ricordare l’immortalità di Titone ma anche la fragilità dell’anima umana.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
La nave di Teseo
Nelle prime fasi del gioco scopriamo anche che Leo Dormer ha scritto alcuni libri tra cui uno in particolare dal titolo Sinking the 30 Oars Ship. Questa è una mia supposizione ma credo possa riferirsi al paradosso della nave di Teseo. La domanda da cui si parte è molto semplice: se le parti della nave dell’eroe greco Teseo vengono sostituite, resta sempre la stessa nave? Se allarghiamo il discorso all’essere umano entriamo proprio in ambito bioetico. L’identità della nostra persona è qualcosa che cambia moltissimo nel corso della nostra vita sia dal punto di vista della materia di cui siamo composti, sia dal punto di vista dei nostri pensieri, delle scelte, delle decisioni. Siamo sempre la stessa persona o cambiamo?
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
L’oasi
Phoenix Springs non è altro che un’oasi in mezzo a un deserto sconfinato. È preclusa ai più, non è facile arrivarci, ma esercita una specie di richiamo su alcune persone e Iris ne è inevitabilmente attratta. In questa sorta di comunità isolata e arcaica vivono degli strani personaggi totalmente ignari del mondo esterno. Qui le persone non hanno bisogno di un nome ma vengono descritte attraverso la loro indole o funzione sociale. Troviamo quindi l’uomo seduto, la bambina annoiata, la donna che si abbronza, l’uomo paziente, la nuotatrice, il carpentiere e così via. Queste persone nude o poco vestite se ne stanno sempre da sole, non dialogano mai tra loro, spesso non hanno ricordi. Le loro brevi risposte, quando vengono interrogate, sono astratte ed enigmatiche. Rispetto alla città distopica e totalitaria dove Iris e Leo vivono, l’oasi rappresenta l’utopia, ”ma ci si chiede se essa sia anche desiderabile, o se non sia invece un paradiso artificiale costruito per celare un inferno spersonalizzante, in cui lo sviluppo delle tecniche e delle scienze conduce a un benessere sterile e all’appiattimento dei singoli individui, incapaci di dare una direzione consapevole alle proprie esistenze.”1
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
La frutta
In Phoenix Springs c’è tanta frutta. In quasi ogni capanna si può vedere della frutta appesa al soffitto a mo’ di pot-pourri. Si scopre presto che esiste proprio un frutteto dove crescono vari frutti. Ma la maggior parte di questi va a male, marcisce. In una capanna in primo piano ci sono addirittura tre barili pieni con frutta in vari stadi di decomposizione. L’artista americana Kathleen Ryan con la sua serie “Bad fruit” ha ricoperto forme di polistirolo di pietre preziose che ricordano le colonie di muffa su frutti sovradimensionati. La frutta marcia simboleggia la decadenza e la muffa oltre a rappresentare l’inevitabile scorrere del tempo, è simbolo della cultura dell’eccesso nel mondo contemporaneo.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
La fotografia
Anche se siamo dentro una distopia futuristica c’è una forte divergenza tecnologica/temporale in Phoenix Springs. Quindi non è strano trovare una vecchissima radio a transistor e una capsula di stasi. O ancora un mulino a pietra manuale per macinare la farina e un citofono che analizza il DNA. In più alcuni artefatti sembrano usciti da un film di Cronenberg, realizzati attraverso un’ibridazione tecno-organica. Ma l’oggetto che più assume significato simbolico all’interno della narrazione è la fotografia. Ciò che resta del rapporto tra Iris e Leo è una polaroid che mostra loro due da giovanissimi. “Ogni fotografia è un memento mori. Scattare una fotografia significa partecipare alla mortalità, alla vulnerabilità e alla mutevolezza di un’altra persona (o cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo.”2
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
L’acqua
“Spring” in inglese significa sorgente, quindi il punto da dove scaturisce l’acqua. Il gioco è tempestato di acqua: pioggia, lacrime, fiumi, laghetti, stagni, mare, alluvioni. Il ciclo idrologico se ci pensate è un loop, un sistema chiuso.
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
Iris
Infine Iris, il nome della protagonista. Il fiore viene associato alla sincerità proprio perché in grado di aumentare la comunicazione. D’altronde Iris è una giornalista e comunicare dovrebbe essere un suo pregio. Allora perché ha impiegato così tanto tempo per mettersi sulle tracce del fratello? Perché conservava solo una fotografia di loro due da piccoli? Perché in tutti questi anni non si sono mai messi in contatto? Perché è andata a Phoenix Springs? Eppure Leo l’aveva avvertita. “Iris, he says. Don’t go to Phoenix Springs.”
Phoenix Springs (Fonte: screenshot)
“[…] mentre l’utopia appare come un auspicio troppo ottimistico per sperare nella sua realizzazione, la distopia si presenta spesso come mera previsione in attesa di un compimento. La pesante eredità del Novecento, i nuovi problemi del XXI secolo e la crisi sempre più profonda dell’umanesimo hanno favorito negli ultimi anni la proliferazione di distopie apocalittiche, terribilmente inquietanti perché terribilmente probabili (o, quantomeno, possibili). Esse possono manifestarsi in forma diversa (totalitaria, catastrofica o cibernetica), ma condividono il senso di urgenza e d’inevitabilità che le ha rese oggetto primario di attenzione non solo da parte delle tradizionali forme di comunicazione letterario-filosofica, ma anche da parte dei nuovi linguaggi estetici e mediatici.”3
Phoenix Springs usa in maniera eccellente sia il linguaggio estetico che mediatico per raccontare una distopia difficilmente incasellabile. Pur usando la struttura specifica del punta e clicca, non si fa irretire dagli elementi nostalgici tipici del genere: interfaccia esplicita, pixel art, citazionismo sfacciato, ironia profusa. Anzi si sveste di tutti questi orpelli di un “glorioso” (?) passato e si mette addosso un elegante e minimale vestito mistico ed enigmatico. Giocando una partita sull’orlo dei significati, abbandona i dettami più “realistici”, o meglio, comprensibili secondo quei rapporti causa-effetto, e sprofonda nelle più insondabili paure umane.
Note
Stefano Ciribè, Il mondo che (non) vorrei. La multiforme natura della distopia, Mimesis, 2023 ↩︎
Susan Sontag, Sulla fotografia. Realtà e immagine nella nostra società, Einaudi, 2004 ↩︎
Stefano Ciribè, Il mondo che (non) vorrei. La multiforme natura della distopia, Mimesis, 2023 ↩︎
Il diner americano è entrato senza ombra di dubbio nell’immaginario collettivo, è quasi diventato un archetipo letterario, fotografico, cinematografico e videoludico non solo nella terra natia ma anche all’estero. Sarebbe interminabile la lista di opere in cui il diner apre le sue porte e fa da palcoscenico per alcune scene iconiche nei vari media. Dalla sua ha quel fascino decadente, solitario, provinciale; un non luogo, liminale, fuori dal tempo, dove tutto e niente può accadere. Situato di solito lungo strade senza fine, in the middle of nowhere, dove il vento e i tumbleweeds sono le uniche cose animate. È il luogo perfetto per ambientare storie di provincia, marginali, inusitate.
Lo ha capito benissimo il duo italiano (anzi, marchigiano, e lo dico con una punta di orgoglio) composto da Eleonora Vecchi e Cristian Gambadori di Bad Vices Games, che ha deciso di ambientare il loro recentissimo While We Wait Here proprio in un diner, chiamato Lone Glass. Il diner in America sta più o meno come al bar in Italia e al cafè in Francia. Un luogo sempre aperto, pronto ad accogliere l’avventore per una breve pausa, due chiacchiere, un caffè, una birra, qualcosa da mangiare che non sia troppo sofisticato e costoso. Un posto popolare di solito a gestione familiare che si può frequentare abitualmente quando non si ha voglia di cucinare oppure semplicemente quando si vuole passare qualche ora in solitudine a rimuginare sulla propria vita o al contrario scambiare qualche parola con il/la barista o con altri avventori. Un rifugio per l’anima, un luogo in declino e accogliente allo stesso tempo dove aspettare di venire serviti mentre fuori il mondo collassa.
Nora e Cliff sono i gestori del Lone Glass, sono sposati e nelle prime fasi del gioco scopriamo che vogliono chiudere il locale in cerca di una vita migliore. Con una visuale in prima persona ci aggiriamo nel piccolo bar che conta solo due tavolini, un bancone che può ospitare tre clienti, un bagno e una dispensa. L’aspetto del diner è piuttosto consunto, la piastra dove cuocere gli hamburger e le padelle sono bruciate, le luci al soffitto ogni tanto sfarfallano, il bagno è in condizioni a dir poco indecenti. Non so come hanno fatto a meritare la lettera A che indica il grado di igiene del locale in America. C’è un vecchio televisore appeso al muro quasi sempre acceso. Quando arrivano i clienti si accomodano e se hanno voglia ordinano qualcosa. Nel frattempo ci raccontano la loro vita.
Da un punto di vista di gameplay, potremmo definire While We Wait Here come un incrocio tra un walking simulator e un cooking game con scelte morali che incidono sul finale del gioco. Per fare un esempio pratico, immaginatelo come il figlio di What Remains of Edith Finch e Coffee Talk. Chiaro, no? Io che ho amato entrambi i giochi ho trovato questo mix perfetto, il giusto compromesso tra un buon storytelling e un gameplay basilare ma funzionale alla storia. In pratica, al giocatore (che può vestire i panni sia di Nora che di Jeff, ma occorrono due run diverse) tocca il compito di prendere l’ordinazione del cliente, procurarsi gli ingredienti nel frigorifero sul retro, cucinarli, impiattare e servire. Se si hanno dubbi su una ricetta, basta consultare il menù con gli ingredienti. Ci sono tutti i classici comfort food da diner: burger e cheeseburger, french fries, milkshake, pancakes, uova e bacon, caffè, birra e whisky. Una volta che il cliente ha finito di mangiare o bere, bisogna portare via le stoviglie, lavarle, riscuotere i soldi e battere lo scontrino. Non ci si deve aspettare la libertà offerta da un open world o la complessità di un gestionale. Quello che conta, qui, è l’atmosfera, il modo in cui la storia si sviluppa, il passato che riemerge dai racconti dei clienti e come viene esposto. In questo Bad Vices Games ha stoffa da vendere. Ha confezionato in un paio d’ore una storia accattivante, che strizza l’occhio all’horror psicologico e al paranormale pur rimanendo ancorata nella quotidianità di una provincia americana, ma che può essere benissimo anche quella marchigiana, italiana, europea, mondiale, universale. Ha messo in scena un cast di personaggi eterogenei che vanno dal vecchio allevatore di mucche solitario all’aspirante e avvenente attrice; dalla coppia di amiche adolescenti (che ricordano tanto Max e Chloe di Life is strange) al nerd ufologo. Tutti si portano dietro dei segreti, dei traumi da risolvere, dei rimpianti. Tutti si ritrovano nello stesso diner.
Certo, tutto scorre su binari prestabiliti e al giocatore viene lasciata pochissima libertà, se non quella di fare delle scelte morali che comunque impattano sul finale di gioco. Al di là di un paio di jumpscare che a mio avviso potevano essere evitati e di alcuni personaggi fin troppo stereotipati e abusati, l’ho trovato un gioco estremamente maturo e ben realizzato, a partire dalla peculiare direzione artistica che si rifà al 3D delle prime PlayStation, con delle animazioni molto dettagliate e un buonissimo doppiaggio in inglese. Come in Coffee Talk e in What remains of Edith Finch, però, il vero protagonista secondo me non è il giocatore e forse neanche i personaggi non giocanti. Il vero protagonista è il luogo, la casa dei Finch, il caffè di Coffee Talk, il diner di While We Wait Here. Quattro mura (molte di più nel caso di Finch) che fungono da catalizzatore di storie, che accolgono tutti, nessuno escluso. Un luogo dove rifugiarsi, in cerca di un po’ di conforto e umanità, dove trovare forse ancora quel contatto umano in un mondo caratterizzato dalla solitudine sia fisica che mentale.
Purtroppo, per vari motivi (gentrificazione, mancato rinnovamento, delivery, scarso appeal, costi di gestione, franchise) i diner così come i cafè francesi e i bar italiani, stanno scomparendo. Francesco Abazia, in un bell’articolo su Rivista Studio scrive: “Neanche le sue qualità sono in grado di squarciare quel velo di nostalgica tristezza che si prova pranzando o cenando nei diner. Un’atmosfera da sopravvissuti, con la strana sensazione che quel pasto potrebbe essere l’ultimo che consumerai in quel posto, prima che il prossimo “fancy restaurant” o burger bar di turno arrivino a pagare l’affitto. E non ti salveranno neanche le preferenze dei Millennial per il vintage, o la ricerca di una cornice alternativa per Instagram. I diner sono destinati a morire, e non c’è nulla che si possa fare per impedirlo.” While We Wait Here coglie benissimo questo stato malinconico, decadente, di imminente finitudine e lo amplifica fino al parossismo.
Due recenti articoli pubblicati su Ludica analizzano, volutamente in chiave critica, un tema che compare sempre più spesso nelle recenti pubblicazioni videoludiche, ovvero quello del turismo. Marco Montanaro nel pezzo su Mediterranea Inferno guarda alla sua Puglia “attraverso gli occhi dei turisti milanesi che qui vengono a fotterci aria e spazio in spiaggia mentre noi, in questo reciproco gioco di seduzione, tentiamo di fregarli con le frise gourmet a quindici euro e i trulli elevati a lusso dell’accoglienza”. Gilles Nicoli invece ci parla della località delle alpi austriache in cui è ambientato Dungeons of Hinterberg come di “un gigantesco parco giochi, con guide turistiche, influencer, giornalisti, slayer principianti e professionisti arrivati per cimentarsi con i dungeon, negozi pieni di gadget e merchandising a tema, investitori pronti ad aprire nuovi hotel e ristoranti. Per la popolazione locale: un incubo; o un’opportunità”. Overtourism, gentrificazione, turismo di massa sono termini di cui si sente parlare sempre più spesso e inevitabilmente finiscono anche nei videogiochi.
In Été si parla anche di turismo, anzi forse solo di turismo. Vestiamo i panni di un pittore o di una pittrice di cui possiamo scegliere il nome e il pronome (anche neutro), che però non vedremo mai perché il gioco è in prima persona. Dalla breve ma efficacissima sequenza di apertura, osserviamo una scrivania con un passaporto, dei soldi in contanti, degli acquerelli e mano a mano che l’inquadratura si allarga, delle valigie, un cavalletto, una finestra. Fuori dalla finestra si intravede un aereo che solca il cielo, attraversa forse l’oceano e atterra a Montreal, Canada. Citando gli esistenzialisti, veniamo letteralmente “gettati” nel mondo di gioco. Abbiamo subaffittato da una certa Marianne un piccolo appartamento arredato per passare l’estate, ma appena entrati nella casa scopriamo che c’è solo un letto e che l’affitto costa esattamente tutti i soldi che avevamo con noi.
Ci ritroviamo quindi squattrinati e con un appartamento completamente vuoto (anche se devo dire molto affascinante, tutto in mattoni con una meravigliosa bow window e con inserti vetrati sul soffitto). Per fortuna Marianne ci dice come racimolare qualche soldo. Lei infatti, oltre a gestire un negozio di antiquariato (ecco dove sono tutti i mobili!) fa anche la fotografa e per un periodo ha venduto le sue foto esponendole nella vicina caffetteria. Non ci resta che sistemare il cavalletto, la tavolozza e i pennelli e dipingere il nostro primo acquerello per poi andare a parlare con il suo amico barista Théo.
Été (Impossible, 2024)
Prima però bisogna trovare un soggetto da dipingere. Marianne ci invita a fare qualcosa di semplice e a portata di mano: cosa c’è di meglio di un passerotto da osservare nel vicino giardino? Ma facciamo un passo indietro. Non ho detto che la Montreal in cui ci troviamo a muoverci è completamente incolore. Semioticamente ha senso. Pensate a quando arriviamo in una città che non conosciamo: tutto è nuovo. È come se avessimo una tela bianca di fronte a noi che aspetta solo di essere riempita con il nostro sguardo: le strade che percorriamo, le persone che incontriamo, i monumenti che visitiamo, eccetera.
Il mondo di Été funziona esattamente così, si costruisce poco a poco. Dobbiamo dipingerlo a colpi di acquerello per scoprirlo e poter interagire. Inoltre alcuni oggetti verranno inseriti in un album e contrassegnati come “timbri”. È proprio grazie a questi timbri che poi possiamo andare a comporre le nostre opere. Tornando a noi, basta colorare qualche uccellino di fronte casa nostra per vederlo comparire nella sezione animali del nostro album. Quindi selezionarlo, metterlo sulla tela, personalizzarlo in grandezza, posizione, colore e quando siamo contenti del risultato confermare tutto dando eventualmente anche un nome alla nostra opera. Siamo pronti per consegnare il nostro primo quadro e ricevere una ricompensa.
Possiamo tranquillamente affermare che tutto il gameplay loop di Été si basa su questo primo esempio appena fatto. I personaggi non giocanti ci assegnano una quest che consiste nel dipingere un quadro con determinati oggetti, una volta trovati e colorati nel mondo di gioco possiamo mettere quegli oggetti sulla tela, personalizzarli a nostro piacimento e poi consegnare tutto per ricevere la ricompensa. Detto così sembra piuttosto semplice e banale ma a complicare le cose ci pensa la suddivisione temporale della giornata. Il tempo in Été è diviso in quattro porzioni: mattina, mezzogiorno, pomeriggio, sera. Alcuni negozi, eventi e persone sono disponibili solo in alcuni giorni e/o momenti della giornata costringendoci a tornare negli stessi luoghi spesso e volentieri.
Été (Impossible, 2024)
Una volta che la giornata volge al termine abbiamo un breve lasso di tempo per coricarci nel nostro letto, altrimenti verrà fatto in maniera automatica. Al nostro risveglio possiamo decidere di impiegare la giornata come vogliamo. Possiamo fregarcene delle task che ci hanno assegnato i vari personaggi in giro per la città e pensare solo a dipingere liberamente. Oppure possiamo dedicarci ad arredare la nostra casa, a patto di avere abbastanza soldi per comprare i mobili (a dire il vero girando vicino a dei cassonetti dell’immondizia possiamo trovare anche qualche oggetto usato che la gente ha buttato via). Oppure possiamo semplicemente camminare e goderci la vivace estate di Montreal.
Certo, è difficile resistere al fascino di incontrare nuova gente ed esaudire bizzarre richieste. Ad esempio dipingere la testa di uno spaventapasseri per il proprietario del negozio di giardinaggio nel parco infestato dai corvi. O ideare una maglietta con le lettere “I Love MTL” per il negozio di souvenir, o ancora personalizzare una scatola di cereali per una mamma i cui figli non vogliono mangiare cereali salutari e noiosi. La Montreal di Été è compatta e divisa in 7 aree che sono l’appartamento, il mercato, il vicolo, il quartiere, il parco, la ferrovia e un’ultima zona che è anche al centro della mappa che si sblocca solo terminando la storia principale. Le zone da un punto di vista architettonico sono labirintiche e intricate, piene di passaggi e scorciatoie, sviluppandosi spesso anche in altezza rendendo così l’esplorazione davvero gradevole e appagante. Purtroppo se si vogliono portare a termine tutte le side quest o collezionare tutti i timbri e i colori senza andare dritti per la main bisogna prepararsi a molto backtracking.
All’inizio dell’articolo dicevo che Été parla di turismo anche se gli sviluppatori stessi lo definiscono come un gioco di pittura. Lo fa spesso in maniera indiretta e potrebbe non risultare evidente anche ai più navigati giocatori e recensori. Dietro quell’aria da wholesome game adatto solo a staccare la spina e il cervello colorando a destra e a manca e arredando il nostro appartamento, molti lo hanno snobbato. Facendone invece una lettura in chiave turistica, ci mostra come si dovrebbe vivere una città: integrandosi, coinvolgendo ed aiutando la comunità, farla crescere, spendere i soldi nelle attività locali e artigianali, lasciare un segno tangibile e positivo del nostro passaggio. L’esatto opposto del turismo “mordi e fuggi” tipico della nostra epoca.
Été (Impossible, 2024)
I ragazzi del sole di Mediterranea Inferno passano solo tre giorni in quella Puglia “infestata”. Il mio alter ego ha vissuto 30 giorni virtuali (15 ore reali) esplorando e facendo conoscenza con tutte le persone che abitano i quartieri della Montreal fittizia e portando a termine tutte le quest. Alcuni giorni me la sono presa comoda e ho fatto anche della deriva situazionista, senza meta prefissata, perdendomi tra le strade. Nel suo recente libro Il videogioco del mondo (Timeo 2024) Stefano Gualeni scrive: «per quanto di natura vicaria e di breve durata, il nostro abitare questi mondi virtuali permette l’emergere di relazioni di carattere esistenziale al loro interno. Come soggetti virtuali possiamo infatti prenderci cura di altri esseri, realizzare progetti e formulare aspirazioni e speranze per il nostro futuro virtuale». Été fa proprio questo: mentre intessiamo relazioni con gli abitanti del quartiere, realizziamo anche la nostra aspirazione artistica.
Il nostro personaggio è un turista consapevole, che bazzica per i quartieri periferici invece che per i centri svuotati dagli Airbnb e le catene di negozi. Preferisce frequentare una comune arrangiata con container in mezzo ai binari dismessi della ferrovia o una caffetteria indipendente dove non dover scegliere tra Frappuccino e Salted Caramel Latte. Acquista una bicicletta usata in un’officina invece di comprarne una nuova e all’ipermercato preferisce il mercato rionale. C’è un solo hotel nel gioco e in un dialogo con un NPC proprio di fronte all’ingresso ci vengono dette queste parole: “Questi turisti pensano sempre che la città debba soddisfare i loro capricci… solo perché hanno pagato a caro prezzo una stanza pulita con le lenzuola di cotone egiziano da 800 fili! Il quartiere c’era prima dell’hotel e ci sarà anche dopo”.
Été è un gioco che trasuda arte da ogni poro, dall’anima bohémien e naïve, che sfocia un pochino anche in territorio anarchico e antiproibizionista. È un esempio virtuoso e virtuale di come passare un’estate fuori dalle rotte comuni, evitando l’overtourism, la gentrificazione, le catene di hotel internazionali, in cui si preferisce la bicicletta a Uber, si interagisce con la gente del posto invece che con guide turistiche microfono in mano e bandierine alzate che ti fanno seguire percorsi battuti come soldatini. Si respira un vero senso di libertà e di scoperta, che è quello che dovrebbe offrire una vacanza estiva. Nessuna costrizione, nessun orario da rispettare, nessuna pressione, nessun fallimento, nessun giudizio. Solo una città da scoprire, gente con cui interagire, tante tante tele da dipingere.
La settimana scorsa, come quasi tutti i venerdì pomeriggio, entro con mia figlia in un locale tutt’altro che fighetto, una specie di bar/panetteria/drogheria/forno dove fanno pure le serate karaoke. Il posto giusto dove fare una pausa merenda dopo l’uscita della scuola e prima della lezione di danza: le pizzette costano meno di un euro, le bevande te le prendi da solo dal frigo, i proprietari sono alla mano e sorridenti. Di solito è frequentato da giovani che bevono Moretti da 66 alle quattro del pomeriggio o famigliole che si fermano per prendere una pagnotta di pane. Quando ci accomodiamo, il mio occhio cade subito su una figura del tutto stonata. Sullo sgabello del bancone era seduta in posa plastica una signora di mezza età, alta, bionda, con un taglio bob medio (quello che una volta veniva chiamato caschetto, per intenderci) che sembrava appena uscita dall’hairdresser (non chiamatelo più parrucchiere, si offenderebbe). Vestita tutta di nero, con un paio di pantaloni attillati in similpelle e sopra un paio di stivali alti quasi fino al ginocchio, dove risaltavano di un oro accecante le lettere metalliche P O L L I N I. Al braccio una borsa intrecciata di ottima fattura, anch’essa nera, probabilmente Bottega Veneta. Sull’altro polso un vistosissimo bracciale dorato che sembrava un rotolo di scotch, mentre le dita curatissime e laccate giocavano con un paio di luccicanti occhiali da sole di qualche marchio di cui non ricordo il nome. Io ero in tuta e mia figlia col grembiule, ci scambiamo uno sguardo complice e sotto sotto ci chiediamo: e questa chi è? La sua presenza era autoritaria, tutto quel nero e quell’oro erano lì ad indicare potere e lusso e non faceva niente per nasconderlo. Era chiaramente fiera della sua posizione e la ostentava con fare quasi arrogante. Ordina un caffè, poi riceve una telefonata, dà un paio di indicazioni e dopo qualche minuto si palesa una sua amica, leggermente più giovane ma anche lei vestita di tutto punto e rigorosamente in nero! Chiede una Coca, e quando la barista gentilmente le dice di prenderla nella frigo vetrina, interviene subito la sua amica con un sarcastico “Qui purtroppo non ti servono”.
Ecco, avevo di fronte una Karen e non lo sapevo. Le Karen sono dappertutto, non solo in America. Wikipedia le definisce così: “Karen is a term used as slang typically for a middle-class white American woman who is perceived as entitled or excessively demanding beyond the scope of what is considered to be normal behavior and decorum. The term is often portrayed in memes depicting middle-class white women who “use their white and class privilege to demand their own way”. Depictions include demanding to “speak to the manager”, being racist, or wearing a particular bob cut hairstyle.” Le Karen (non necessariamente donne, eh! può essere usato anche per i maschi, vedi Trump e Musk) sono persone che si credono speciali, che tutto debba ruotare intorno a loro, che si arrogano il diritto di lamentarsi anche per cose futili, che sono disposte a sminuire gli altri pur di raggiungere i propri fini. Le Karen non mi stanno simpatiche. Ma non potendo prenderle a schiaffi nella vita reale, ho deciso di sfogare la mia rabbia in un videogioco. Sì, ed è fantastico.
Le origini del meme Karen sono indefinite, ma tra le tante ipotesi ce n’è una che chiama in causa niente popo’ di meno che Nintendo e il trailer di lancio di Switch nel 2016. Ad un certo punto compare una ragazza ben vestita, chic, raffinata, con un taglio di capelli a caschetto, che sta giocando a Super Mario Odyssey nel suo loft fighetto. Quando viene invitata dai suoi amici che stanno organizzando una festa sul terrazzo vicino, non ci pensa due volte, stacca la console dal dock e se la porta dietro, mettendosi a giocare in piedi in modalità co-op con una ragazza, mentre gli altri guardano incuriositi alle loro spalle, con il tradizionale bicchiere rosso in mano. Questa la reazione immediata dell’utente Joematar su Tumblr.
Lei è la Karen della grande N
A otto anni di distanza, il cerchio si chiude. Attack of the Karens è da poco sbarcato su Nintendo Switch, dopo il debutto su Steam a fine 2023. Quindi, se avete come me anche una minima avversione verso le Karen e siete possessori di Switch, non avete più scuse, non vi resta che sbarazzarvene una volte per tutte. In questo shoot ’em up a scorrimento orizzontale, infatti, lo scopo principale è far fuori letteralmente a colpi di laser quattro Karen, mutate in potenti cyborg da un agente patogeno extraterrestre. Abbiamo Tiffany, una imprenditrice che si è fatta da sola e che ha licenziato un terzo del personale solo perché nessuno le aveva fatto un regalo alla festa aziendale; Cassie, una mamma il cui scopo nella vita è accompagnare i figli alle attività sportive, che ha ribaltato un negozio quando ha realizzato che un paio di pantaloni le stavano male; Marva, che crede di sapere tutto e si è fatta un esercito di alligatori; Jordan, una influencer da milioni di follower caduta in disgrazia.
Prima di arrivare alle spettacolari boss fight vere e proprie, però, a bordo della nostra piccolissima navicella X-15, dobbiamo affrontare svariati minion, che una volta abbattuti rilasciano degli anelli. Questi vanno a riempire una barra al cui completamento ci rilascia un power up casuale temporaneo. I minion più grandi e le Karens rilasciano anche dei moduli che servono a potenziare in maniera definitiva la nostra navicella. Una volta tornati al menù principale, possiamo decidere di spenderli in maggiori punti salute, maggiore danno del blaster, maggiore velocità della navicella e maggiore cadenza di fuoco. Altri miglioramenti permanenti che si possono sbloccare sono: uno scudo deflettore, dei potenti razzi, delle sfere in grado di assorbire le pallottole. L’ordine in cui si affrontano le quattro Karen è casuale come casuale è l’area dove le incontreremo. Tutto questo aumenta in maniera esponenziale la rigiocabilità, rendendo praticamente ogni run unica. Ho trovato il gioco molto equilibrato, nel senso che non è estremamente punitivo ma neanche troppo bonario, a patto di riuscire a sbloccare tutti i potenziamenti permanenti. Se le cose dovessero sembrare comunque squilibrate, si può ricorrere a dei modificatori, sia in negativo (Kurse) che in positivo (Kushion) ma devo dire che, anche se non sono un professionista dei bullet hell, sono comunque riuscito a portarlo a termine solo attivando il Kushion +3 di salute. Prossimo obiettivo: finirlo puro.
La grafica in pixel art fa un uso sapiente di solo due colori: il lilla e il verde declinati in poche gradazioni, oltre al bianco e al nero. Questo rende molto leggibile anche le situazioni più affollate. Per fortuna i proiettili nemici lampeggiano, quindi sono facilmente individuabili, anche se in un paio di occasioni ho davvero perso di vista la mia minuscola navicella letteralmente sommersa dal fuoco nemico. Le Karen sono tutte doppiate in maniera credibile e per un gioco di questo budget è davvero una bella sorpresa. Una piacevolissima colonna sonora chiptune accompagna le concitate battaglie. Ora io mi chiedo: cosa volere di più da un gioco che costa meno di 5 euro? Perfetto in modalità portatile, piccole sessioni da 20-30 minuti, sfida equilibrata, un gameplay solido e soddisfacente, tanta ironia raffinata e calata nel reale, ma soprattutto ho potuto riportare le Karen con i piedi per terra, visto che nella vita reale non sempre si può fare, ahimè.
Arne Næss nasce a Slemdal, nei pressi di Oslo, il 27 gennaio del 1912. Tove Jansson nasce a Helsinki il 9 agosto 1914. Nell’immaginario collettivo, i paesi scandinavi offrono foreste incontaminate, montagne, neve, ghiacciai, cieli limpidi e aurore boreali, lunghe giornate d’estate e infinite notti d’inverno. Mi sono fatto l’idea che chi cresce in questi contesti abbia da una parte un rapporto privilegiato con la natura, che è davvero a portata di mano, e dall’altra molto tempo a disposizione per pensare, produrre, creare. D’altronde, qui la settimana lavorativa è tra le più corte in Europa, non ci si deve preoccupare più di tanto del sistema sanitario malfunzionante, della corruzione imperante, o del diritto all’istruzione. I trasporti pubblici funzionano, si fa largo uso delle biciclette, l’energia proviene da fonti rinnovabili. E poi hanno questa parola tutta loro che è hygge, che non trova traduzione nella lingua italiana ma suona più o meno così: “condizione di benessere psicologico, emotivo, ambientale, caratterizzata da una serena disposizione d’animo verso la realtà”.
Snufkin: Melody of Moominvalley è la cosa più hygge che mi sia capitata tra le mani. In ambito videoludico, si usa la parola cozy, o ancora meglio wholesome, per definire questo tipo di giochi. Non ci sono combattimenti, non ci sono punteggi, non ci sono timer, non ci sono game over. Per chi ancora pensa che videogiochi=violenza, beh, mi spiace ma esistono anche esperienze diverse. Nei wholesome game tutto è molto rilassato, a partire dall’art direction che fa largo uso di colori dalle sfumature pastello o comunque dei toni caldi, a cui si aggiunge spesso una colonna sonora dai ritmi morbidi e melodie lo-fi. Nello specifico, le musiche sono affidate nientemeno che ai Sigur Ròs e solo per questo vale il biglietto d’ingresso. Prima di proseguire, devo fare una confessione: a Snufkin: Melody of Moominvalley non ho giocato, lo hanno fatto per me i miei due figli di 8 e 9 anni che si passavano entusiasti il controller ogni dieci minuti cronometrati da Alexa (ormai la usiamo solo per questo e per cuocere la pasta). Io ero dietro a supervisionare e tradurre in tempo reale (il gioco non è localizzato in italiano, forse perché i Moomins sono famosi in quasi tutto il mondo, tanto da avere anche un parco a tema in Giappone, tranne che in Italia?).
Ma torniamo ad Arne e Tove per un momento. Se non sapete chi sono, è giunta l’ora di presentarveli. Arne Næss è stato un filosofo e alpinista ed è conosciuto come il fondatore dell’ecologia profonda. Tove Jansson è stata scrittrice e pittrice ed è conosciuta per aver dato vita ai Moomins. Ora il collegamento tra Tove Jansson e Snufkin: Melody of Moominvalley è quantomeno scontato, ma che cosa c’entra Arne Næss vi starete chiedendo? Ci arriviamo presto.
Arne Næss (1912-2009)
Di sicuro, sia Arne che Tove hanno beneficiato e sono stati profondamente influenzati dall’ambiente in cui sono cresciuti per creare le loro opere e forgiare il loro pensiero. Arne ha scritto molti dei suoi saggi in completa solitudine nella sua baita-rifugio Tversgastein, sulla cima del monte Hallingskarvet. Un luogo estremo a 1500 metri sul livello del mare, spazzato da venti violentissimi, dove la temperatura interna non supera quasi mai i nove gradi, dove il cibo deve essere semplice e nutriente, l’acqua portata a mano da sorgenti distanti duecento metri: tutto diventa prezioso e acquista un valore ben più importante di quanto ne avesse prima. Tove Jansson ha passato per trent’anni tutte le sue estati in un cottage formato da una sola stanza sulla minuscola isola rocciosa Klovharun, nell’arcipelago del golfo finlandese. Qui, con la sua compagna Tuulikki, ha vissuto senza elettricità e senza servizi, a volte anche minacciate da onde altissime e violente. Con loro solo la barca Victoria, con cui andavano a pesca e a volte a prendere provviste. In un saggio intitolato The Island scrive: “L’acqua finisce. Il tetto perde. Un albero sta per essere abbattuto. Un uccello ha rotto la finestra, la rete da pesca è sparita.” La baita-rifugio di Arne Næss e il cottage di Tove Jansson, pur se in luoghi diametralmente opposti (una a 1500 metri l’altra sul livello del mare) condividono il contatto diretto con la natura selvaggia; delle condizioni climatiche difficili se non estreme; l’isolamento e la fuga da ogni distrazione; l’ottimizzazione delle risorse e la predilezione per il riuso e il riciclo. Tove Jansson continua: “Quando sei stata sola per molto tempo, cominci ad ascoltare in modo diverso, a percepire gli organismi viventi e l’imprevedibile intorno a te, e a vedere l’incomprensibile bellezza del mondo materiale in ogni cosa.”
Tove Jonasson (1914-2001)
Ora che abbiamo abbozzato in quale contesto geografico e antropico Arne e Tove hanno creato la maggior parte del loro pensiero e delle loro opere, possiamo proseguire e approfondire la personale ecosofia di Næss mettendola direttamente in relazione con Snufkin: Melody of Moominvalley, videogioco da poco pubblicato e tratto dalle storie di Tove Jansson. In Siamo l’aria che respiriamo (Piano B edizioni, 2021) Arne Næss elenca gli otto principi su cui si basa l’ecologia profonda. Io ve ne presento cinque e li analizzeremo accompagnandoli a degli screenshot fatti dai miei figli nella loro appassionante partita, svolta in tre sessioni da 1,5 ore ciascuna.
1. Il benessere e la prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra hanno un valore intrinseco. Tali valori sono indipendenti dall’utilità del mondo non-umano per scopi umani.
Alla fine della prima parte del gioco, che serve ad introdurre le meccaniche principali, Snufkin incontra questo cartello. Il Park Keeper (il tizio vestito con l’uniforme simil-militare) ha riempito la valle dei Moomins di parchi con siepi squadrate, fiori disposti in aiuole, fontane, alberi potati dalle forme geometriche perfette, piastrelle di cemento, statue, il tutto rinchiuso dentro ad una alta ed appuntita recinzione in ferro battuto. Ma soprattutto ha cosparso la valle e i giardini di divieti. Divieto di campeggiare, divieto di scarponcini con il tacco, divieto di accesso a tutti gli animali, divieto di fumare la pipa (nelle illustrazioni originali Snufkin ha sempre una pipa in bocca, mentre nel gioco ha un rametto, credo per motivi di rating). Non serve dare valore ad un albero dandogli una forma cilindrica. Infatti, una cosa che può fare Snufkin nel gioco è scuotere questi alberi per farli tornare “selvaggi”, “non-umanizzati”. Ai miei figli è piaciuto tanto questo piccolo atto digital-sovversivo.
2. La ricchezza e la diversità delle forme di vita contribuiscono alla prosperità della vita umana e non-umana sulla Terra e sono a loro volta valori in sé.
Nella valle dei Moomins abitano tantissime creature, anche molto diverse tra loro, e quasi tutte convivono in armonia. Ma c’è una figura che gli abitanti temono e dalla quale se ne stanno alla larga. Si tratta di Groke, una grossa creatura solitaria, tutta nera, dai grandi occhi inespressivi e che ghiaccia il suolo al suo passaggio. Forse perché si sente sola ed esclusa è irrimediabilmente attratta dal calore e dalla luce. Questa sua propensione verso il fuoco risulterà utile a Snufkin nel corso del gioco quando si troverà a dover domare un incendio causato della superficialità delle guardie. I miei bambini all’inizio temevano la Groke, sia per il suo aspetto minaccioso, sia perché ad un certo punto ha cominciato ad inseguirli in mezzo alla foresta. Poi, quando hanno capito che la diversità può anche essere utile, è diventata uno dei loro personaggi preferiti.
3. Gli esseri umani non hanno il diritto di ridurre questa ricchezza e diversità, se non per soddisfare i bisogni vitali.
Come ogni primavera, Moomintroll e Snufkin si ritrovano sul ponte. Ma questa volta non è così. Moomintroll non c’è ad aspettare Snufkin, ma cosa ancora più strana è che il letto del fiume è prosciugato. Sul suo greto si vedono le lische dei pesci morti e intorno alberi rinsecchiti e fogliame di un verde spento. Non tarderemo a scoprire che il Park keeper è il responsabile di questo scempio e che le motivazioni sono tutt’altro che di vitale importanza.
5. L’attuale interferenza umana con il mondo non-umano è eccessiva, e la situazione sta rapidamente deteriorando.
Il Park keeper non si è accontentato di costruire un solo parco, ma ne ha disseminati tantissimi in tutta la valle. Tocca a Snufkin smantellarli ed accedere così a nuove aree altrimenti precluse. È questa la meccanica principale del gioco. Attraverso fasi stealth e utilizzando anche i suoi strumenti musicali per distrarre le guardie, deve togliere tutti i cartelli di divieto senza farsi catturare. È il momento più action di tutto il gioco che ha tenuto sulle spine i miei figli. Una volta divelti i cartelli, le guardie se ne vanno e Snufkin procede a smantellare tutte le tracce dell’interferenza umana per far tornare la natura ad una situazione primigenia.
7. Il mutamento ideologico è principalmente quello di apprezzare la qualità della vita (dimorare in situazioni di valore intrinseco ) piuttosto che ricercare un tenore di vita sempre più elevato. Vi sarà una profonda consapevolezza della differenza tra il grande e l’intenso.
Questo principio sembra essere stato scritto apposta per Snufkin, il protagonista del gioco. Lui è un filosofo, un flaneur che ama le cose semplici della vita, come pescare, suonare l’armonica e camminare da solo di notte, uno spirito libero a cui non interessa possedere cose. Tutto quello che gli serve è dentro al suo zaino e vive in una tenda. In inverno lascia la valle dei Moomin, quando comunque loro vanno in letargo, per poi farvi ritorno in primavera. È un tipo indipendente e la libertà è la cosa più preziosa per lui, ma non si tira indietro di fronte alle responsabilità e ai bisogni degli altri. Scriveva Næss :“Se sei seduto vicino a un ruscello e vedi un piccolo animale che sta per caderci dentro e fai un piccolo movimento con il dito per aiutarlo, in maniera completamente spontanea, senza pensarci affatto, direi che per un momento ti sei identificato con lui”. Snufkin è così, e sono sicuro che ai miei figli sia arrivato un po’ dello spirito di questo ragazzino.
Mario Porro scrive su Doppiozero a proposito dei saggi e del pensiero di Næss: “Il sé che si espande avverte come primari gli interessi delle altre specie, lascia che gli altri realizzino le loro potenzialità: la protezione della Natura diventa un gesto spontaneo, come la cura di sé.” Credo sia proprio per questo che i Moomins siano forse più attuali oggi di ottant’anni fa e che stanno vivendo una seconda giovinezza. Loro non si preoccupano delle identità di genere, rifiutano il materialismo e il classismo, lottano contro le autorità ingiuste, incoraggiano la libera realizzazione del sé. Snufkin: Melody of Moominvalley è stato il primo approccio che i miei figli hanno avuto con l’universo dei Moomins, ma ho visto un tale trasporto verso Snufkin e gli abitanti di Moominvalley che non avevo mai visto in nessun’altra opera videoludica, letteraria o televisiva. Dovremmo tutti diventare un po’ Snufkin. Che poi assomiglia tanto a Arne Næss.
Quando ero piccolo, vedevo mio nonno Leonello distillare il mistrà, naturalmente in maniera del tutto illegale. Se fosse nato in America invece che nelle Marche, sarebbe stato additato come un “moonshiner”. I miei occhi innocenti di bambino erano affascinati da quel malridotto alambicco in rame che doveva essere controllato costantemente, anche di notte, per evitare dispersioni di vapore con conseguente compromissione della qualità del liquore a base di anice. Naturalmente non mi era permesso assaggiare il risultato finale, se non quando avevo mal di denti causati da carie: solo allora potevo trattenere in bocca una sorsata di liquido trasparente per anestetizzare il dente in attesa di cure. Nelle Marche praticamente ogni famiglia aveva la sua piccola scorta di mistrà fatto in casa. Era una tradizione che purtroppo già con la generazione successiva (quella di mio padre) si è persa. Forse in maniera preconizzante, quella fascinazione per i distillati e il suo intrigante processo produttivo mi sono rimasti dentro per tanti anni fino a che, anche se non li produco, ora li seleziono e li servo nel mio locale.
Un impianto di distillazione clandestino dentro una stanza di un motel. Tutto normale no?
Credo che anche gli sviluppatori di Booze Masters: Freezing Moonshine nutrano una forte attrazione verso il mondo della distillazione e in particolare per la vodka, da buoni polacchi quali sono. E non solo. Credo che di quel liquido dal grado alcolico superiore al 40% ne abbiano fatto anche largo uso durante lo sviluppo. Altrimenti non si spiegherebbero quei personaggi fuori di testa, la storia così weird, il game loop incentrato sul coltivare botaniche e verdure ghiacciate per poi distillarle, berne il risultato e accedere a nuove zone, nuove botaniche, nuovi liquori. Se vi è venuta improvvisamente voglia di bere, prendetevi un bicchierino e vi porto con me nel motel La sorpresa.
Questa è l’accogliente reception.
Siamo alla guida di una macchina rossa in mezzo alla neve, la tempesta imperversa, solo alberi e rocce ai lati della strada, nessun segno di insediamenti umani, e solo due utenti stanno guardando la nostra diretta streaming. C’è nulla di più scoraggiante? Si, arrivare in un motel e scoprire che è gestito da un pupazzo di neve chiamato Zero Karoten; che come vicini di stanza abbiamo un professore barbuto in sandali e calzini e un distillatore pazzo di nome Jerry, che per la maggior parte del gioco se ne starà seduto in poltrona congelato; che per cena ci viene servito un piatto di “neve in bianco” e che siamo fottutamente intrappolati in mezzo al nulla a meno che non riusciamo a produrre la vodka più fredda del mondo. Sono queste le premesse per vivere l’esperienza più weird che vi sia mai capitata, vestendo i panni di Quella, una giovane blogger in cerca di storie sensazionali e perennemente in diretta streaming. Nella fin troppo affollata e caotica UI, infatti un riquadro in basso a destra monitora costantemente il numero di viewers e i loro commenti. Perdete un po’ di tempo a leggerli perché ne vale la pena e ogni tanto dispensano pure qualche aiutino. Spendo due parole solo per dire che la maggior parte del tempo la si passa a cercare piantine, interrarle nei rispettivi orticelli, raccoglierne i frutti una volta maturi, portarli nella distilleria, macinarli, aggiungere lievito e altri ingredienti in base alla ricetta da fare, farli fermentare, poi distillare tutto e infine imbottigliare. Una volta bevuto il risultato, si ha accesso a nuove aree, perché magicamente quel liquido ci fa vedere piattaforme che prima non c’erano. Il potere dell’alcol.
Vi presento Quella.
Booze Masters: Freezing Moonshine non è il primo videogioco indie ad avere tra le meccaniche principali quella di produrre, miscelare e servire alcol. Mi viene in mente l’ottimo The Red Strings Club, dove il barman Donovan deve preparare diversi tipi di cocktail per tirare fuori emozioni e informazioni dai suoi avventori. Oppure VA-11 Hall-A, dove in base al tipo di alcolico servito da Jill, le storyline possono prendere pieghe diverse. Anche Afterpartyfa uso della meccanica del drinking game per far proseguire la narrazione, solo che stavolta invece che dietro ad un bancone in un futuro cyberpunk, ci troviamo all’inferno nei panni di due amici appena laureati. Ma c’è un personaggio che più di tutti nella storia dei videogiochi verrà ricordato per il suo rapporto con l’alcol: Harrier Du Bois, il protagonista di Disco Elisyum. Come scrive Matteo Lupetti in questo articolo “Nella modalità «Hardcore» i prezzi sono più alti e droga e alcol (e i loro bonus) diventano fondamentali per andare avanti. Diventano, come nella realtà, un’utile via di fuga dalle difficoltà socioeconomiche.”
L’alcol serve a guarire l’anima, dice Donovan.
Ma torniamo a Booze Masters: Freezing Moonshine. Apparentemente è un gioco mediocre, che non eccelle in nessun reparto. La grafica è grezza come una carta vetrata da 40, il gameplay ripetitivo con tanto, troppo backtracking, dialoghi scritti sotto acido che sfociano pure nel razzismo qualche volta, storia surreale e banalotta, sezioni di parkour snervanti. Eppure è un’esperienza che mi ha tenuto incollato allo schermo, che avevo voglia di completare per vedere fino a che punto si spingeva il nonsense. In questo Booze Masters: Freezing Moonshine ha vinto. E mi sono reso conto che è proprio quello che voleva. Anche se tutto sembra sconclusionato e incoerente, il gioco lancia un messaggio forte che forse è sfuggito ai pochissimi che lo hanno giocato (nel momento in cui scrivo queste righe ha solo 60 recensioni su Steam). È una netta critica ad un certo tipo di streaming, dove pur di avere più spettatori, si fa di tutto e non si guarda in faccia a nessuno. Più le “challenge” sono estreme e assurde, più si acquista visibilità. Il contatore di Quella lo dimostra con i numeri: parte con solo 2 spettatori e arriva a più di un milione quando le cose si fanno davvero davvero strane ed estreme. I casi di cronaca sono pieni di esempi nella vita reale purtroppo, ultimo l’incidente di Casal Palocco dove uno youtuber “aveva noleggiato il Suv Lamborghini con l’unico ed evidente fine di impressionare e catturare l’attenzione di giovani visitatori del web per aumentare i guadagni della pubblicità, a scapito della sicurezza e della responsabilità e di conseguenza a procedere ad una velocità superiore ai limiti indicati.” (nel virgolettato le parole del Gip). Peccato che ci abbia lasciato la pelle un bambino di cinque anni.
L’alcol ha incredibili proprietà, permette di vedere cose che non ci sono.
In questo, Booze Masters: Freezing Moonshine è un capolavoro perchè anche io sono stato uno degli spettatori, anzi ancora peggio, ero io a guidare Quella, a farle coltivare sempre più piante e a produrre sempre più distillati, a berli per accedere a nuove zone e proseguire con l’assurdo, aumentando a dismisura il numero di visualizzazioni. Avevo quel desiderio di spingermi verso il limite e non sono riuscito a fermarmi se non all’arrivo dei titoli di coda. Sono caduto vittima dello streaming virale e solo alla fine mi sono reso conto che, come anche Quella dice qui sotto al professore, le avventure è meglio viverle che documentarle. Booze Masters: Freezing Moonshine 1- Gianni Mancini 0. Scusate, ora vado a bere e il telefono lo lascio a casa.
Lo metto subito in chiaro: Lil’ Guardsman è un ibrido tra Papers, please e Monkey Island. Non lo dico io ma gli stessi sviluppatori, che tra continui rimandi meta narrativi e rotture della quarta parete lo ammettono candidamente e spudoratamente, come si può evincere dalla schermata sotto.
C’è tutta l’ironia sgangherata dei primi episodi della serie targata Lucasfilm e ci sono le meccaniche principali dell’ormai iconico e citatissimo gioco di Lucas Pope. Solo che in Lil’ Guardsman, invece di un ispettore di mezza età arstotzkiano, impersoniamo una bambina di dodici anni di nome Lil e invece di navigare tra isole caraibiche infestate da pirati fantasma, ci ritroviamo dentro le mura di Sprawl, un villaggio medievale fantasy dove la tecnologia è arrivata molto avanti (un pò come in Nimona, per capirci).
Visto che questa non è una recensione, non mi soffermerò sul fatto che bisogna decidere chi fare entrare dentro le mura del regno di Sprawl o chi tenere fuori; che abbiamo a disposizione strumenti come metal detector, spray della verità, raggi x, una frusta e un anello decodificatore per smascherare eventuali malintenzionati; che possiamo telefonare a tre consiglieri per avere il loro parere; che dobbiamo seguire (o no) per ogni turno di lavoro le istruzioni scritte sul decreto reale; che abbiamo a disposizione solo tre azioni e che alla fine ci verrà assegnato un punteggio da una a quattro stelle. Non dirò neanche che ogni decisione conta davvero e che le possibili diramazioni sono moltissime, con continui plot twist e che l’interesse rimane vivo per tutta la durata del gioco, che viene spezzato anche da momenti in cui c’è libera esplorazione e situazioni più da punta e clicca classico. Non mi dilungherò sul cast stravagante di personaggi che include una vecchietta mutaforma, una assassina alla Freddy Krueger, dei goblin che stanno organizzando una rivoluzione, maghi bramosi di potere, orchesse a dir poco arrabbiate con il loro ex marito, avari vecchietti trafficanti, eccetera, eccetera. Neanche sul potere di riavvolgere il tempo grazie al Chronometer3000, che ci permette di ripetere l’intero turno di lavoro o vagliare di nuovo un singolo personaggio nel tentativo di migliorare la nostra valutazione. E non parlerò dell’ottimo doppiaggio in inglese, del buon livello di scrittura e della piacevolissima direzione artistica fumettosa. No!
In questo pezzo parlerò del rapporto tra Hamish, il padre di Lil, e appunto sua figlia, giusto per restare in tema con la Cover Story di febbraio dedicata al romanticismo. Ci sono piccolissimi spoiler nelle righe e nelle immagini che seguono ma niente di drammatico, quindi, se non avete intenzione di giocare a Lil’ Guardsman, potete proseguire a cuor leggero, se invece ho stuzzicato il vostro interesse, fate a vostro piacimento. L’importante è che leggiate i dialoghi tra i due.
Hamish è un omone barbuto, dal petto villoso, dalle spalle larghe, che porta con sé una spada attaccata al cinturone. Lavora presso uno degli ingressi di Sprawl come guardiano e tra turni estenuanti e gestione familiare, si fa un mazzo tanto. Quando ha bisogno di scaricare la tensione (praticamente sempre) scommette sulle partite di goblinball, lo sport nazionale di Sprawl. Niente di male, direte voi, solo che questo vizietto ultimamente gli è sfuggito di mano, tanto che non si fà scrupoli a mandare la figlia dodicenne a coprire il suo turno per andare a piazzare una puntata “vincente”. Doveva essere solo per un giorno, le cose non andranno proprio così. Anche se all’apparenza Hamish potrebbe sembrare un tipo burbero, poco incline ad esternare i propri sentimenti, rimasto vedovo troppo presto e quindi arrabbiato con il mondo, in realtà è un padre premuroso, gioviale, sempre pronto alla battuta e a sdrammatizzare, che non risparmia abbracci e domande sullo stato emotivo della figlia. Potremmo definirlo un buon padre, a patto di chiudere un occhio sullo sfruttamento minorile, ma d’altronde non ci sarebbe stato il gioco!
Hamish è talmente sincero con la figlia che non si vergogna di ammettere che passa poco tempo con lei e che vorrebbe che le cose fossero più rilassate, ma la frenetica vita medioevale impone ritmi di lavoro sfiancanti e il tempo a disposizione rimane poco.
Inoltre un sistema capitalistico e cronofago come quello medioevale (suvvia, non è cambiato poi molto in questi mille anni), dove l’inflazione sale e le tasse pure, costringe Hamish a fare gli straordinari e i turni di notte, pur di soddisfare le esigenze della piccola Lil. Ma siamo sicuri che sia quello che Lil vuole? Lei in realtà non ha bisogno di cose materiali, giocattoli, accrocchi, libri, peluche. No, quello che desidera ardentemente è poter giocare con i propri amici, “tirare sassi alle cose”, non avere obblighi e responsabilità, ma soprattutto passare più tempo con suo padre, fare cose da bambina, mangiare cose da bambina, essere una bambina. Per l’età adulta c’è ancora tempo.
Purtroppo, un evento che era nell’aria allontanerà Hamish e Lil, ma il loro rapporto proseguirà in maniera epistolare. Trovare le lettere del padre appena sveglia è la cosa che più fa stare bene Lil. Stesso discorso vale per Hamish, che non risparmia parole di conforto, incoraggiamento e amore verso la sua “sweet pea”, sempre con quella vena di umore e leggerezza che lo contraddistinguono. Lil, d’altro canto, potrà rispondere alle missive del padre con un tono che può oscillare tra il romantico e la barzelletta sporcacciona, al giocatore la scelta. Questo carteggio in tempi difficili e separati è forse la parte più bella di tutto il gioco, è una lezione verso quei genitori distratti che credono che il lavoro, le incombenze burocratiche, i social network, valgano di più del tempo speso con i propri figli. Ma il tempo è davvero l’unica forma di ricchezza irrecuperabile e sperperandolo facendoci governare da varie ossessioni (che sia l’azzardopatia come per Hamish, o anche il workaholism, la social media addiction, il gaming disorder e chi più ne ha più ne metta) non fa altro che erodere questa risorsa così preziosa che abbiamo a disposizione verso i nostri figli. Allora, che siate genitori o figli davanti a questo schermo, invece del “spegni il computer e vai a dormire” di monkeyislandiana memoria, fossi in voi spegnerei lo schermo e andrei a fare quello che Hamish e Lil fanno qui sotto.
Cosa ricorderò del mio 2023 videoludico appena trascorso? Sicuramente giochi molto intimi, poetici e potenti, sviluppati quasi sempre da una singola persona, che mi hanno emozionato nel profondo, che hanno toccato corde non facilmente raggiungibili. Una serie di opere che hanno avuto il coraggio di raccontare storie difficilmente riscontrabili in questo medium e che hanno spesso abbandonato facili e oliate meccaniche ludiche per avvicinarsi più alla letteratura o al romanzo a fumetti.
Partiamo da Mediterranea Inferno, che narra dell’estate post lock down di tre giovani adulti in una assolata Puglia. Visivamente appagante, onirico, teatrale, sopra le righe, queer fino al midollo. Nessuno ha parlato in maniera così forte dei traumi che il covid ha lasciato in una intera generazione già minacciata da un futuro incerto e che cerca rifugio in un passato idealizzato. Lorenzo Redaelli si conferma un grande ammaliatore, capace di partire da esperienze autobiografiche e autoctone per poi allargare l’orizzonte con estrema facilità.
Anche in Videoverseci sono dei giovani chiusi nelle loro camerette, ma stavolta a tenerli segregati non è un virus bensì una console dei primi anni 2000. Lo Shark fa girare videogiochi ma soprattutto l’omonima Videoverse, una chat in cui si possono fare conoscenze virtuali, pubblicare fanart, commentare (non sempre in maniera appropriata). Lucy Blundell confeziona un Bildungsroman moderno, brillante, commovente e sincero e lo fa ricostruendo una credibile app di messaggistica con solo due colori.
Di solitudine parla anche Birthdi Madison Karrh la cui protagonista si ritrova in una grande città abitata perlopiù da uccelli antropomorfi scheletrici. Ci sono poche occasioni di socialità, la gente preferisce chiudersi nei propri appartamenti. Non le resta che costruirsi un compagno, una creatura fatta di ossa, organi e un cuore umido. Birth spinge ed incoraggia il giocatore a fare esperienze con persone reali, a ristabilire quel contatto fisico ed empatico che sembra essersi perso in questi ultimi tempi.
Quello che rende unico Saltsea Chronicles è che più che il vogleriano viaggio dell’eroe, qui assistiamo a un viaggio corale, anzi proprio antieroico. Non si raccontano le gesta sovrumane di un singolo, ma le inquietudini, i dubbi, le speranze, i rimpianti, gli amori, le amicizie di un gruppo sgangherato e improbabile di marinai/e che navigano quel “mare salato” che ha sommerso la civiltà precedente degli “accumulatori”. Un affresco post capitalista, dove il denaro non ha più nessun valore, e post apocalittico, dove come simbolo supremo si erge la SISAO, fu OASIS, un tempo lussuosa nave da crociera, ora affondata.
Il gioco che però ha segnato il mio 2023 è stato The Wreck. Un titolo difficile da digerire, sicuramente non adatto ad un pubblico che cerca spensieratezza e sollazzo, tutt’altro. Una visual novel dai temi maturi che parla di famiglie disfunzionali, lutti, traumi, del saper lasciare andare, del fine vita, della maternità e genitorialità. Facendo muovere il giocatore all’interno di diorami tridimensionali che altro non sono che ricordi cristallizzati nel tempo, la storia procede in maniera non lineare fino alla difficile scelta finale. Un pugno allo stomaco, anzi tanti pugni allo stomaco, che non possono lasciare indifferenti.
C.Thi Nguyen nel suo recente saggio Giocare è un’arte scrive: “Permettetemi di ricordare che la maggior parte di noi pensa degli artefatti umani possano creare esperienze particolari e che attraverso queste esperienze possiamo sviluppare noi stessi, aiutandoci a imparare come stare al mondo. Non è così strano pensare che le narrazioni ci offrano una formazione emotiva e ci mostrino nuove possibilità. Leggere, guardare e ascoltare molte opere differenti può aiutarci a trasformarci in persone più complete e migliori: attraverso le narrazioni, possiamo ricevere esperienze da altre persone. Queste esperienze possono infiltrarsi nel resto della nostra vita, possono plasmare la nostra esperienza e il nostro modo di stare al mondo. Perché è così strano pensare che anche i giochi, la forma d’arte umana in cui giochiamo con le agency, assumiamo identità pratiche alternative, assumiamo abilità e obiettivi diversi e adottiamo nuovi assetti sociali, possano fare una cosa del genere?”
I miei giochi del 2023 questa cosa la fanno bene, molto bene.
Quando Andrea Maderna mi ha proposto di parlare di un gioco dal titolo A perfect day ho titubato un po’. La domanda che subito mi è venuta in mente è stata: esiste davvero un giorno perfetto? La risposta migliore mi è venuta da Niccolò Fabi che l’ha messa in musica in quel capolavoro che è Costruire, dove con una melodia in tre/quarti ci svela che per vivere sereni bisogna sapere rinunciare alla perfezione e costruire giorno dopo giorno. E già per il povero gioco in questione le cose partono con il piede sbagliato. Poi come faccio ormai di solito sono andato a sbirciare su How long to beat quante ore fossero necessarie per portarlo a termine. La stima era di 24 ore, guarda caso una giornata intera. Altro punto a sfavore. Chi mi legge da un po’ di tempo sa che gioco principalmente a titoli con un forte impianto narrativo e la cui durata non supera quasi mai le dieci ore. È un limite che mi sono imposto e che trovo ragionevolmente sufficiente per riuscire ad intrattenermi senza scivolare nella pesantezza e ripetitività. Se un disco lo “consumiamo” in un’ora, un film in due ore, un libro di 60.000 parole in meno di 4 ore, perché continuiamo a scandalizzarci o ad urlare contro gli sviluppatori se un videogioco dura meno di 20-50-100 ore? Mi piacciono esperienze concentrate, non diluite, ben a fuoco, con pochi personaggi tratteggiati bene. Mi son detto “e che sarà mai, per una volta facciamo uno strappo alla regola, magari scovo un capolavoro dimenticato da tutti”. Poi, dopo neanche un’ora di gioco, arriva come una doccia fredda quello che non avrei mai voluto: la meccanica principale del gioco è un maledetto loop temporale. Ho sbroccato.
Tipo così.
Da un po’ di tempo questa cosa sembra essere sfuggita di mano. Sarà per il successo dei roguelike e rougelite che altro non sono che loop temporali mascherati (ma neanche tanto) in cui si intrappola il giocatore nella ripetizione ossessiva di run su run che valorizzano il fallimento come stile di vita (!) solo per migliorarsi (!) ed essere più preparati la volta successiva (!). D’altronde i primi videogame su cabinato erano essi stessi dei loop dove però per ricominciare bisognava inserire una monetina. Se volete saperlo, ho abbandonato Hades, ancor prima Dead Cells, e in Loop Hero credo di non essere andato oltre i 30 minuti di gioco. Ora, sia chiaro che questo è un mio problema, e che non mi sto scagliando contro tutti i videogiochi che usano questa meccanica, ma a me è davvero venuta a noia, anzi non è mai entrata nelle mie corde, non c’è engagement, per usare una parola figa. Perché mi dovete costringere a rivivere gli stessi scenari, gli stessi dialoghi, incontrare gli stessi personaggi, rifare centinaia se non migliaia di volte la stessa cosa? Non è la vita reale già abbastanza circolare? Alzarsi, andare a lavorare, mangiare, dormire, consumare, ripetere da capo. A questo punto userò il povero e sfortunato A perfect day per fare un discorso più generale sull’uso dei time loop e perché secondo il mio modestissimo parere, hanno rotto i coglioni.
All’ennesima volta che ho visto Zagreus uscire dalla pozza di sangue ho risbroccato.
La trama di A Perfect Day ruota attorno a un bambino delle elementari di nome Chen Liang e al suo desiderio di vivere la giornata perfetta. La scuola termina inaspettatamente presto, così Cheng Liang coglie l’occasione per consegnare a Ke Yun, una ragazza della sua classe, una cartolina di Natale. Ma è l’ultimo giorno del 1999, quindi è decisamente in ritardo. Purtroppo, le cose non andranno come previsto, che si tratti di Ke Yun, dei suoi amici o della sua famiglia. Tutti hanno qualche problema da risolvere, che sia uno pseudo Game Boy rubato, un divorzio imminente, debiti di gioco da saldare. Al giocatore, e quindi a Chen Liang, spetta il compito di far sì che le cose si mettano a posto utilizzando in maniera corretta le informazioni e gli oggetti raccolti nei loop temporali. Il gioco è fastidiosamente ripetitivo (e ti credo è un loop!), legnoso, dalle meccaniche fumose, con una UI che definire imbarazzante è un complimento e come se non bastasse ha crashato diverse volte sulla mia Switch. Ma al di là di questi aspetti puramente tecnici, il setting poco interessante (una nostalgica Cina in bilico tra un passato fatto di povertà e fatica e il nuovo millennio che promette modernità e ricchezza) e una scrittura tutt’altro che raffinata, quello che non mi è andato giù è proprio l’espediente narrativo del loop temporale.
La mia espressione facciale quando scopro che c’è un loop temporale nel gioco.
In 12 Minutes (ne abbiamo parlato qui) mi sono ritrovato intrappolato in un appartamento claustrofobico e venivo ucciso appunto ogni 12 minuti. Che stress, lasciatemi morire una volta e basta, non voglio svegliarmi solo per ritrovarmi nello stesso posto e rivivere le stesse cose. Gli orizzonti si allargano a Blackreef ma la fine in Deathloop (ne abbiamo parlato qua) è la stessa. Morire per rinascere, imparando ogni volta qualcosa di nuovo. Di minuti ne servivano 22 in Outer Wilds prima che l’intero universo collassasse, rewind veloce e oplà pronti per scandagliare per l’ennesima volta in lungo e largo un intero sistema solare. Clamorosamente non ho terminato nessuno di questi giochi e non me ne vergogno. Ho solo un piccolo rimorso per Outer Wilds, ma credo che il messaggio ultimo mi sia arrivato comunque: meglio sdraiarsi su un’amaca, arrostire qualche marshmallow e godersi lo spettacolo finchè si può. (Per chi volesse approfondire il tema della morte nei videogiochi vi rimando a un mio articolo su Ludica). Sarà forse per la brevità del loop di solo 60 secondi, il gameplay delizioso e la grafica a 1 bit che sono riuscito invece a portare a termine Minit. Alcune congiunzioni astrali favorevoli, l’ambientazione storica interessante e i dialoghi scritti davvero bene mi hanno permesso di arrivare ai titoli di coda anche di The Forgotten City. Per una volta non ero io a morire e quindi anche in Overboard! sono riuscito a farla franca. Con A Perfect day non ce l’ho proprio fatta. Non mi interessa assolutamente risolvere le paturnie di un ragazzino delle elementari che crede che tutto si può aggiustare. Non lo trovo educativo e francamente questa continua tendenza alla perfezione, alla performance, che solo fallendo si può crescere e migliorarsi, mi risulta stucchevole. A volte il fallimento c’è e te lo tieni. Il game over arriva e puoi anche smettere di giocare. Non comprendo chi insegue con ostinazione run perfette, chi platina i giochi, chi speedrunna. A una società sempre più performante e veloce, che cerca di mascherare la morte anche attraverso i respawn continui nei videogiochi, io preferisco ancora la linearità, da A a B con i miei tempi, senza pressioni e senza trofei. Non devo dimostrare niente a nessuno. Byung-Chul Han ne La società della stanchezza scrive “per poter funzionare meglio, ci ottimizziamo fino alla morte.” È questa la terribile verità. La continua ricerca della perfezione non fa altro che portarci verso il burnout e la morte. Rompere il loop vuol dire riuscire a mettere tutto a posto, rendere tutto perfetto e ottimizzato ma non è altro che un terribile inganno, un’illusione. Inoltre trovo la meccanica del loop temporale un espediente narrativo per sviluppatori pigri, un escamotage per riciclare ambientazioni e dialoghi allungando un brodo che potrebbe essere finito in molto meno tempo. Non è un caso che i miei videogiochi preferiti di quest’anno siano quasi tutti visual novel e puzzle game. Sto invecchiando e anche questo è un chiaro segnale.
Gabbro miglior NPC di sempre.
In conclusione, A Perfect Day è un’esperienza di gioco affascinante e memorabile che unisce con successo nostalgia, strategia e una narrazione commovente. È una testimonianza della creatività e dell’ingegno degli sviluppatori di giochi nel creare storie uniche e coinvolgenti. Che tu sia un appassionato di giochi a loop temporale o semplicemente ami una storia commovente, A Perfect Day è un must-play che ti lascerà con un sorriso sul viso e una sensazione calorosa nel cuore.
Non sono impazzito, leggi sotto.
Il paragrafo qua sopra l’ho fatto scrivere a ChatGPT che ha un’idea completamente diversa dalla mia. Pazienza. Bisogna saper rinunciare alla perfezione.