Bonfire peaks, ovvero quando il falò non serve solo a strimpellare la chitarra e pomiciare

“Libertà è un rogo ben congegnato.”

Michele Serra, Le cose che bruciano

Nel romanzo di qualche anno fa appena citato Michele Serra narrava le vicende di Attilio che, abbandonata una fallimentare carriera politica, si ritira in montagna. Qui incombono però troppi ricordi, riportati alla mente dalle centinaia di oggetti accatastati in soffitta e in ogni dove. L’unico modo per disfarsene è bruciarli, ridurli in cenere, per alleggerirsi definitivamente di tutte quelle inutili cose che non fanno altro che ricordargli il passato rubando spazio al presente e al futuro. E allora via con il rogo, la pira, il falò. 

Ma il falò non serve solo a cancellare i ricordi. Intorno ad un falò ci si riunisce anche per scaldarsi, preparare del cibo, suonare, cantare, riposare, raccontare delle storie. Il crepitio del fuoco, le scintille che scoppiettano, la calda luce che illumina la notte e allunga le ombre riescono a creare una situazione piuttosto unica di intimità che favorisce il dialogo e l’apertura. Si creano spesso le condizioni ideali per tirare fuori argomenti che in altri luoghi non ci si sognerebbe mai di esporre.

I videogiochi hanno fatto grande uso dei falò sin dagli esordi del medium fino ad arrivare ai giorni nostri.

Memorabile ad esempio il falò di Melee Island in Monkey Island, ad oggi una delle rappresentazioni più belle di sempre considerando i limiti tecnici dell’epoca. Il riverbero del fuoco sulle pietre, il cielo stellato, i toni e le sfumature del blu hanno fatto sognare i giocatori (tra cui me) del 1990. 

E’ ancora un falò dove si riunisce il gruppo di Chrono Trigger (1995) dopo 400 anni e si discute di temi “piccoli piccoli” come ricordi, morte, rimpianti.  

The last campfire, una deliziosa e recente avventura di Hello Games, ha addirittura il falò nel titolo e lo usa come forte ed efficace metafora narrativa. 

Anche Madeleine, in quel capolavoro che è Celeste, riscaldata dalle fiamme di un falò in un momento di pausa durante la sua pericolosa ascesa, ammette chiaramente di fronte a poco più di uno sconosciuto di avere delle difficoltà, cosa che fino a quel momento aveva tenuto nascosta e repressa.

In Where the water tastes like wine il falò è onnipresente. In questa bizzarra avventura narrativa ci ritroveremo a girovagare negli Stati Uniti d’America della Grande Depressione alla ricerca di storie da raccontare e da usare come valuta di scambio. E dove trovarle se non davanti ad un falò? 

Troviamo ancora i falò in produzioni ben più importanti ma con ruoli diversi. In Horizon Zero Dawn servono per gli spostamenti veloci, in Breath of the Wild, Link li usa per riposare e per cucinare, infine in Dark Souls svolgono la funzione di checkpoint e livellamento del personaggio. 

L’ultimissimo gioco che mi è capitato fortuitamente tra le mani fa del falò il suo punto cardine e si è rivelato essere uno dei migliori e più originali puzzle game dai tempi di Baba is you. Sto parlando di Bonfire Peaks. Non voglio stare a spiegare le meccaniche del gioco, basti sapere che tutto parte da una semplice quanto efficace premessa: bruciare i propri possedimenti contenuti in una cassa. L’obiettivo è infatti quello di portare la cassa piena di oggetti sopra al falò per vedere andare in fumo il contenuto. Bisognerà ripetere questa azione centinaia di volte, via via con metodi e in modi sempre più complicati. 

Quello che invece mi piace mettere in evidenza è l’aspetto artistico e narrativo del gioco. Da un puzzle game nudo e crudo come questo non ci si aspetterebbe nessun tipo di narrazione. E infatti il protagonista non spiccica una parola. E non c’è una linea di testo se non il titolo del livello. Ma la narrazione ambientale è molto forte ed è forse il motivo principale che ci spinge a scalare la montagna, al di là della sfida intellettiva (che di per sé è già molto soddisfacente e gratificante). Con un sapiente uso della voxel art, il programmatore Corey Martin è come se avesse svuotato e sparpagliato tutte le cose accatastate nella sua soffitta/mente e le avesse gettate sul sentiero. Potremmo perciò incontrare ad un certo punto un letto di ospedale o un pianoforte, poco importa. Quello che colpisce di questa produzione è che piano piano si crea nella nostra mente una narrazione, entriamo in sintonia con il personaggio, che di falò in falò, di puzzle in puzzle scala la montagna, si inerpica in un paesaggio dai colori autunnali che a sua volta è un macro puzzle. Empatizziamo con questo omino e ci chiediamo perché ha questo bisogno di bruciare le cose. In questo senso Bonfire Peaks eccelle in entrambe gli aspetti. Quello ludico e di sfida è ben supportato da una narrazione ambientale di grande spessore. E’ un gioco molto intimo e crepuscolare e lo si percepisce non appena ci si mettono le mani, ma è solo salendo e scalando la montagna che ci si addentra nei ricordi più reconditi e dolorosi. E’ come una seduta psicoanalitica, al termine della quale ci si sente meglio e liberati.

Ho fatto qualche domanda a Corey Martin per cercare di entrare ancora di più nel suo affascinante mondo, soprattutto a livello artistico e tematico.

GM. Si percepisce in Bonfire Peaks una certa melanconia sia per l’uso di alcune tonalità di colori che per la patina invecchiata delle texture. Ha un aspetto molto autunnale, di qualcosa che sta per finire (dopotutto l’autunno segna la fine dell’estate, la stagione della spensieratezza). Perché?

CM. Il gioco sostanzialmente ha a che fare con il lasciar andare le cose e nell’accettare l’impermanenza, la nostalgia, il decadimento, il dolore. Ho cercato di fare delle scelte che servissero a quei temi e alla mia esperienza personale di essi. Non c’è una storia nel senso stretto del termine, quindi ho cercato di esprimere queste idee attraverso l’ambiente e l’atmosfera del gioco.

GM. Ho provato in tutti i modi di capire cosa contenesse la cassa da bruciare. Puoi dirmi cosa c’è dentro?

CM. Sta a te decidere! Qualunque sia la tua interpretazione del gioco, questa è corretta.

GM. Il fuoco ha un potere catartico e liberatorio che ci invita a ricominciare. Ne sei affascinato?

CM. Haha non lo so. Mi piacciono i fuochi piccoli e sotto controllo.

GM. Quanta energia ha richiesto fare un gioco così? Si percepisce una maniacale cura del dettaglio e che nulla è lasciato al caso.

CM. Mi fa piacere sentirtelo dire! Ci sono voluti 3 anni, perciò parecchio tempo ed energie. All’inizio avevo intenzione di fare un gioco molto più piccolo, ma poi abbiamo continuato a trovare nuove idee da esplorare. Spero che la gente apprezzi l’esplorazione del gioco.

A mio avviso un grande puzzle game si esplicita quando la soluzione è palesemente mostrata davanti ai propri occhi e già nella tua mente si crea tutto il processo risolutivo. Solo che quando lo si va ad attuare si scopre che quello è il percorso sbagliato e che bisogna usare il pensiero laterale, riformulare la propria teoria, uscire dai binari. Corey Martin è un grande illusionista, come Arvi Teikari di Baba is you. Molto spesso i due autori hanno disegnato i livelli per farci credere che la soluzione sia palese, ma il più delle volte è solo un inganno. La soluzione è sempre molto ben celata dietro un velo di pura ingegnosità. Ci vorranno molte prove prima superare alcuni livelli e la curva di difficoltà è piuttosto alta e si impenna subito, ma la soddisfazione di portare a termine un livello dopo ore (si ore!) di ragionamenti e prove è impareggiabile. Se consideriamo poi che anche il comparto artistico e narrativo non sono da meno, possiamo dire che siamo di fronte ad un piccolo capolavoro del genere.

Non credo che Corey Martin abbia mai letto il romanzo di Michele Serra, ma questo passaggio riassume benissimo quello che Bonfire Peaks è.

“Questo è l’elenco sommario dei materiali destinati al falò, aggiornato alle ore sei e trenta di questa mattina di giugno. Al primo posto , incontrastate regine, le otto chiavarine sfondate che dovrei far riparare e reimpagliare da almeno una ventina d’anni. […] Sono sedie scadenti, con le gambe guaste, però “di famiglia”. Formula che contiene, alla massima potenza, il micidiale ricatto della memoria, quello che per onorare il passato, ostruisce il presente.”

Michele Serra, Le cose che bruciano
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AGENT A

UN PUZZLE SOTTO MENTITE SPOGLIE

Le avventure grafiche punta e clicca sono quasi scomparse dalla circolazione. Hanno vissuto il loro periodo d’oro negli anni ottanta e novanta per poi cadere inesorabilmente nel dimenticatoio lasciando però dei ricordi indelebili nelle menti dei videogiocatori di quegli anni. Le principali cause della crisi delle avventure punta e clicca si possono imputare all’avvento della grafica 3D e del CD Rom. Il primo ha reso il mondo videoludico e le sue meccaniche più verosimili, senza bisogno di interfacce come lo Scumm di LucasArts o SCI di Sierra. Il secondo, grazie alla maggiore capacità di memoria, ha introdotto sequenze filmate che hanno ridotto le avventure ad un ammasso di brutte scene e scarso livello di interazione. 

Per i nostalgici di quei tempi ci sono pochi esponenti che continuano a proporre questo genere. Tra questi una menzione particolare spetta al primo lavoro del piccolissimo studio australiano Yak and co. uscito prima su dispositivi mobili iOS e Android e ora disponibile per Nintendo Switch, PS4, Xbox One e PC. Agent A é una classica avventura in stile punta e clicca ispirata al mondo delle spie e a tutto l’immaginario archetipico creato da Ian Fleming. Impersoneremo una spia del MIA (Majesty’s Intelligence Agency) che dovrà introdursi nella villa di Ruby La Rouge e vendicare la morte del nostro capo. L’ambientazione si rifà agli anni sessanta tanto che la villa assomiglia clamorosamente alla famosa casa sulla cascata di Frank Lloyd Wright. 

La villa di Ruby sembra essere stata protettata da Frank Lloyd Wright

Anche i mobili all’interno della dimora sono ispirati all’epoca, come ad esempio l’iconica poltrona uovo. Le musiche sembrano uscite da Agente 007 Licenza di uccidere (il film viene anche citato in uno dei dialoghi). Insomma avrete capito bene il tipo di mood che gli autori hanno dato alla loro avventura. 

Pultanti, leve, bottoni, radar, monitor: tutto il necessario per una spia

Dal punto di vista narrativo la storia procede in maniera piuttosto prevedibile e scontata, anche se sono presenti alcuni colpi di scena. Nei cinque capitoli che compongono la storia ci sarà chiesto di affrontare diverse situazioni e missioni. Il punto forte del gioco sono comunque la miriade di enigmi che con una crescente e ben calibrata curva di difficoltà ci verranno proposti. Alcuni puzzle sono piuttosto originali e daranno del filo da torcere anche ai giocatori più esperti. Essendo il gioco ambientato nella casa di una spia saremo infatti circondati da stanze segrete, strani meccanismi, pulsanti nascosti, codici da decifrare, pezzi mancanti da trovare. Ci sono moltissimi enigmi di tipo logico, matematico, deduttivo. Questi sono disseminati in tutta la villa e nonostante la sua considerevole dimensione ci sarà bisogno di tornare spesso suo propri passi per risolvere rompicapi prima irrisolvibili. Il continuo backtracking a volte può risultare però un po’ fastidioso soprattutto quando verso la fine dell’avventura le zone accessibili saranno davvero molte. Le schermate fisse da esplorare in prima persona e senza nessun tipo di interfaccia (almeno nella versione Android da me provata) sono intermezzate ed impreziosite da brevi cut scenes.

Niente male la vista

Come in qualsiasi avventura che si rispetti il tono ironico contraddistingue molte battute, che però vengono snaturate nella traduzione italiana, quindi il consiglio è di giocarlo con i sottotitoli in inglese. Non ci sono dialoghi a scelta multipla, il gioco procede risolvendo enigmi uno dietro l’altro. La possibilità di rimanere bloccati c’è, ma con un po’ di ragionamento logico e di buona osservazione si riesce ad arrivare alla schermata finale in tre-quattro ore a seconda del grado di abilità del giocatore. Ad aumentare la longevità e rigiocabilità ci sono una serie di obiettivi secondari che difficilmente alla prima run riuscirete a scorgere.

I ragazzi di Yak and co. hanno confezionato una piccola perla nel panorama videoludico odierno dove il genere avventura/puzzle è sempre più raro da scovare. Certo non brillerà per originalità ma in ogni scena si intravede la cura e il dettaglio che hanno messo in questo lavoro che merita decisamente una possibilità. 

Adatto a: i nostalgici delle avventure
punta e clicca e amanti di 007
Non adatto a: chi odia il backtracking ed
il pensiero logico

VOTO: 7,5

Giocato e finito su Android per 3 ore – disponibile per Microsoft Windows · iOS · Android · PlayStation 4 · Xbox One · Nintendo Switch

LIMBO

LA PAURA FA CRESCERE

Di Gianni Mancini 01/02/2019

Perché scrivere oggi di un gioco uscito nel 2010 e di cui quasi tutto il mondo ha parlato? Semplice, perché è più di un mero videogioco.

Dietro questa piccola perla videoludica si cela Arnt Jensen e il suo studio Playdead con sede a Copenaghen, Danimarca. Arnt per anni lavora nel settore dei videogiochi come illustratore nello studio IO Interactive famoso per la serie Hitman. All’inizio dell’avventura è felice perchè viene pagato per fare quello che gli piace: disegnare. Ma il suo entusiasmo svanisce quando si trova a non poter più esprimere la sua voglia di sperimentare. Frustrato dalla ripetitività e dal metodo di lavoro che non permetteva di andare oltre a percorsi stabiliti, decide di prendere in mano una penna nera e comincia a disegnare per se stesso. Ed è in questo momento che nasce Limbo.

I suoi ricordi d’infanzia trascorsi nella campagna danese saranno lo scenario perfetto per l’ambientazione del suo primo gioco: la foresta, le caverne, le fiabe dei fratelli Grimm e i Moomins di cui Arnt era un grande appassionato. La paura per il buio, l’ignoto, i ragni, le ombre saranno al centro della concept art di Limbo. Secondo alcuni esperti la paura nelle fiabe è un formidabile strumento di iniziazione, attraverso cui i bambini imparano che il male esiste, che bisogna fronteggiarlo, che è necessario staccarsi dalla famiglia per trovare una propria identità, che le buone azioni prima o poi vengono premiate.

L’avventura ha inizio senza nessuna introduzione di alcun genere. Il piccolo protagonista si sveglia in una foresta molto buia, i raggi del sole a malapena riescono a filtrare attraverso la fitta vegetazione e una nebbia onnipresente. Ad accompagnare i primi passi del bambino solo i suoni di una natura selvaggia ed ostile. La morte arriva subito in questo titolo ed è quasi inevitabile. Infatti il piccolo protagonista, solo ed impaurito, dovrà vedersela con trappole appuntite, tagliole, rocce rotolanti, ed un ragno gigante che lo accompagnerà per un po’, senza contare il fatto che non ha ancora imparato a nuotare, quindi dovrà evitare l’acqua o annegare inesorabilmente.  Il gameplay è ridotto all’osso: si può solo correre, saltare ed interagire con un oggetto. Le animazioni sono molto curate e dettagliate e la fisica è incredibilmente realistica. Quest’ultima avrà un ruolo di primo piano nella risoluzione dei vari enigmi: vasi comunicanti, magneti, leve, piani inclinati, ecc. In questo platform bidimensionale a scorrimento orizzontale si muore spesso (anche in maniera abbastanza splatter!) e questo trasmette volutamente un senso di frustrazione e impotenza ma allo stesso tempo l’ignoto ci spinge a volerci inoltrare ancora di più nella cupezza dello scenario. Bisogna imparare dai propri errori per andare avanti.

Il gioco è diviso in 39 capitoli, che poi sono anche i vari, per fortuna abbondanti, checkpoint. I puzzle ambientali andranno affrontati diverse volte prima di riuscire a superare alcuni punti, in quanto è richiesta una precisione ed una tempistica quasi maniacale. Bisogna molto spesso tornare sui propri passi per riuscire a superare alcuni dei punti ostici del gioco. Comunque sia in tre o quattro ore si arriva alla conclusione, a patto di non voler raccogliere tutte le undici sfere luminose (bonus) sparse nei capitoli e molto ben nascoste (io sono riuscito a trovarne solo 5!)

Dal nord Europa un piccolo e cupo capolavoro che ha segnato la storia dei giochi indie e non solo. Se ancora non lo conoscete, provatelo e non ve ne pentirete.

PUNTI DI FORZAPUNTI DEBOLI
bianco e nero d’atmosferaabbastanza breve
inquietante e pauroso al punto giustoa volte un pò frustrante e ripetitivo
puzzle intelligenti

VOTO: 8,5

 Giocato su PC per 4 ore – disponibile per Android ·Microsoft Windows ·macOS ·iOS ·Linux ·Xbox 360 ·Xbox One ·PlayStation 4 ·   PlayStation Vita · PlayStation 3 · Nintendo Switch

RETURN OF THE OBRA DINN

MEMENTO MORI

Di Gianni Mancini 09/05/2019

Ricordati che devi morire, questo dicevano gli antichi romani  per ricordarci che siamo esseri terreni destinati a perire. A bordo dell’ Obra Dinn, vascello costruito a Londra nel 1796 e disperso in mare nel 1803, di persone ne muoiono ben sessanta e non arriverà mai a destinazione nel viaggio verso oriente. Lucas Pope, l’autore del gioco, ha impiegato quattro anni e mezzo per portare a termine la sua fatica, ma ne è valsa la pena.

Impersoniamo l’ispettore capo assicurazioni e risarcimenti dell’ufficio di Londra che dovrà redigere un rapporto per la Compagnia delle Indie Orientali. Un marinaio ci accompagna con una piccola barca a remi a bordo della Obra Dinn nel porto di Falmouth e dice di aspettarci finché non avremo finito. Una volta saliti noteremo la desolazione assoluta e un unico cadavere. Con noi abbiamo portato una cassa contenente il materiale investigativo: un libro e un orologio da taschino con sopra impresso un teschio. Avremo le prime informazioni su ciò che dobbiamo fare proprio dal libro. Oltre alla mappa della rotta, la piantina della nave, la lista dei passeggeri, le illustrazioni della vita a bordo, il libro contiene dieci capitoli che però sono completamente vuoti. Saremo noi attraverso le nostre indagini a dover riempire le pagine dei vari capitoli determinando l’identità e la sorte di tutti i passeggeri. Per fare questo abbiamo a disposizione lo strano orologio da taschino chiamato memento mortem che ci permette di rivivere il momento appena prima del decesso. Una volta aperto l’orologio su un cadavere (o quel che ne resta) lo schermo si farà buio e sentiremo solo l’audio della scena.

Il libro che ci permetterà di risolvere i misteri della Obra Dinn

Dialoghi, urla strazianti, colpi da sparo, lanci di arpioni, cannonate. Alla fine della parte audio ci ritroveremo letteralmente immersi nella scena del delitto che però è stata congelata nel tempo e nello spazio. In questo still frame tridimensionale potremo solamente osservare per un determinato periodo di tempo cosa è accaduto girando intorno alla scena. Premendo il tasto E faremo uno zoom sui protagonisti del delitto e premendo il tasto TAB si potrà aprire la pagina del libro relativa a quel soggetto. Qui dovremo inserire la sua identità, come è stato ucciso e da chi. E’ un viaggio a ritroso nel tempo che all’inizio ci lascerà sgomenti perché gli elementi deduttivi a nostra disposizione sono davvero pochi e la lista di nomi e di sorti davvero lunga. Il senso di spaesatezza potrebbe far desistere molti, ma questo non è un gioco semplice, è una sorta di simulazione investigativa, un gioco enigmistico molto raffinato. Lucas Pope ci è venuto incontro mettendo sopra al ritratto della vittima una classificazione di difficoltà, da uno a tre triangoli, e ci consiglia di partire dalle identità più facili, ovvero quelle da un triangolo. Il gioco ci dirà se avremo indovinato le sorti dei passeggeri solamente a gruppi di tre, questo per evitare la componente casuale.  

L’orologio Memento mortem

Il gioco adotta la visuale in prima persona con una grafica monocromatica che richiama quella del Macintosh 128. La scelta grafica è volutamente grezza sia per motivi tecnici che funzionali al gioco. Un approccio più pulito avrebbe facilitato troppo la comprensione degli still frame investigativi rovinando parte della forza dell’esperienza ludica. Tutto il gioco si svolge in un ambiente molto limitato, a bordo dell’Obra Dinn. Il vascello è stato ricostruito virtualmente in maniera impeccabile e riesce a calarci nell’atmosfera claustrofobica, fredda, pericolosa che solo un marinaio dell’epoca poteva provare. Lo sciabordio dell’acqua, i legni scricchiolanti, il sartiame al vento e le voci multirazziali dei marinai presi da ogni continente rendono l’immersione molto realistica e coinvolgente.

Il gameplay atipico è la forza stessa del titolo di Lucas Pope, non c’è interazione con l’ambiente di gioco (a parte usare l’orologio e aprire le poche porte all’interno del vascello) come in una classica avventura punta e clicca. La scena è congelata e non possiamo fare altro che osservare attentamente ogni minimo dettaglio e rielaborare tutto mentalmente. Le meccaniche del gioco sono state spostate volutamente all’interno del nostro cervello. Il giocatore non viene guidato o indirizzato verso un percorso da seguire nella risoluzione delle sorti dell’equipaggio, ha libertà assoluta nei tempi e nei modi. Ci possono essere molti approcci diversi all’individuazione del nome e della causa del decesso dei presenti sull’Obra Dinn. Senza scendere troppo nei particolari per non rovinare l’esperienza, quello che conta, e che ogni provetto investigatore dovrebbe avere, è l’attenzione maniacale ai dettagli che siano questi vocali, visivi, anagrafici, comportamentali. E’ come sbrogliare una enorme matassa di fili (sessanta in questo caso) dando ad ognuno di loro un nome e una sorte. E’ un lavoro da Sherlock Holmes, l’archetipo narrativo per eccellenza del mistery creato nel 1887 da Conan Doyle. Il detective inglese ha spiccate doti intellettive e riesce a risolvere i casi in maniera quasi enigmistica. Non si sporca le mani, a lui basta osservare per poi rielaborare mentalmente la scena. E’ in questo che Return of the Obra Dinn riesce perfettamente. Ci fa vestire i panni di un detective del 1807 e mette alla prova in maniera geniale le nostre capacità di ragionamento. Questo titolo va affrontato con il massimo rispetto, prendendosi tutto il tempo, con calma, magari nello studio pieno di libri con un camino acceso e una tazza di Earl Grey.

Una meritata tazza di tè
Adatto a: aspiranti detective amanti dei
vascelli
Non adatto a: chi ama i giochi “interstiziali”, giusto per riempire il tempo

VOTO: 8,7

Giocato e finito su PC  per 20 ore – disponibile per Microsoft Windows