L’inestimabile solitudine di FAR: Lone Sails

Mi sono reso conto che in questo periodo sono attratto come una mosca sul miele da giochi brevi, che non presentano grossi o nulli elementi di sfida, che sono contemplativi, per non dire noiosi, e soprattutto che hanno un/una protagonista che nel mondo di gioco è dannatamente solo/a. Mi sono chiesto il perché. E mi sono dato anche una risposta. Il lockdown dovuto alla pandemia di COVID-19 degli ultimi mesi (per i posteri che leggeranno questo articolo mi sto riferendo al periodo dai primi di marzo ai primi di giugno 2020) ci ha costretto a condividere spazi spesso angusti con le persone della nostra famiglia facendo diventare il concetto di  solitudine una chimera. Qui bisogna fare una precisazione per quanto riguarda il termine solitudine che purtroppo in italiano non trova corrispondenza. Non è la loneliness, lo stato emotivo negativo contraddistinto dal senso di isolamento. La solitudine che intendo io è la solitude, ovvero quello spazio mentale che serve per rigenerarsi, per riflettere ed è qualcosa che si sceglie e non viene imposto. In questo senso a me, che convivo con mia moglie e due figli di quattro e sei anni, è mancata tanto la solitude, quel tempo necessario ed essenziale per conoscere se stessi. La filosofa Hanna Harendt ha espresso bene il concetto in questa sua frase: “in solitude […] I am “by myself”, together with my self, and therefore two-in-one, whereas in loneliness I am actually one, deserted by all others.”

Allora questa solitude non potendola trovare altrove, l’ho cercata in brevi videogiochi, spesso sperimentali e poco conosciuti, ma che in alcuni casi diventano allegorie tanto potenti da lasciare il segno, aiutandoci nella riflessione e a stare insieme con noi stessi. FAR: Lone Sails, opera prima dello studio svizzero Okomotive, è uno di questi.

Tutta la narrazione è rigorosamente ambientale

Lone è una piccola bambina dall’età imprecisata. Si trova sulla tomba di un uomo sotto un albero anch’esso ormai senza vita. Quella che una volta era una casetta sull’albero ora è solo un ammasso di tavole che a malapena stanno ancora insieme. Il cielo è grigio e delle grosse nuvole incombono all’orizzonte. L’unica nota di colore in un mondo altrimenti monocromatico è il suo vestito rosso. Coperta da un cappello e da un impermeabile, che la fanno assomigliare ad un pompiere, di Lone sappiamo poco altro. 

Rimasta ormai sola non potrà fare altro che partire in cerca di un futuro migliore. Ma con quale mezzo? Lo scopriremo giusto il tempo di un paio di schermate più avanti.

Il nostro fidato veicolo

Si tratta di una sorta di locomotiva costruita con elementi di recupero. All’interno dell’abitacolo innanzi tutto dovremo familiarizzare con i vari pulsanti che faranno funzionare il veicolo. Come in una imbarcazione vera lo spazio ridotto deve essere utilizzato al meglio per potersi muovere con agilità. Quindi sarà bene utilizzare i ganci per appendere le casse o i bidoni che raccoglieremo lungo la strada e che a mano a mano bruceremo per generare energia e riempire il serbatoio tondeggiante. Bisogna imparare a conoscere bene il nostro veicolo e a mantenere il piccolo spazio abitabile efficiente e ben organizzato. Oltre a dover far muovere la nostra locomotiva, bisognerà risolvere di tanto in tanto degli enigmi ambientali che in questo caso si presenteranno sotto forma di imponenti costruzioni o sbarramenti. In alcuni di questi hangar/officina avremo anche la possibilità di potenziare il nostro veicolo, azionando meccanismi, premendo pulsanti, saltando da un parte all’altra in piccole fasi platform. Il primo potenziamento che otterremo quasi subito sarà un albero con tre vele che ci permetterà di risparmiare il carburante ed usare la spinta del vento. Un altro importante potenziamento sarà la saldatrice. Infatti le parti della nostra locomotiva artigianale sono soggette al logoramento dovuto sia agli impatti con alcuni ostacoli che agli agenti atmosferici.  

La tentazione di accostare e paragonare questo titolo a Limbo o Inside può risultare forte, ma a mio avviso è errata. Dai due titoli di Playdead, sicuramente FAR prende le meccaniche di base, ovvero la progressione lineare da sinistra verso destra, interrotta da enigmi ambientali che devono essere superati per proseguire. Inoltre anche qui la narrazione avviene solo attraverso le immagini, non ci sono testi o dialoghi di alcun tipo. Mancano però totalmente il trial and error e il backtracking. Se proprio devo accostare FAR ad un altro gioco, mi piace farlo con Journey da cui prende in prestito la costruzione di un mondo in decadenza, deserto, un tempo abitato e vivo, di cui ora si possono solo scorgere le rovine. Trattori ed automobili abbandonate, relitti di gigantesche navi smembrate, hangar e gru spropositatamente enormi. Solo alcuni animali sono sopravvissuti in una società industriale che faceva affidamento sulla potenza della meccanica, del ferro, dell’energia a vapore ma che evidentemente ha fallito spazzata via da chissà quale calamità. Da Journey poi, oltre ai toni rilassati e alla sfida quasi nulla, eredita la metafora per eccellenza, come vedremo dopo.

Da un punto di vista artistico il titolo è davvero notevole ed ispirato. Sebbene vengano usati pochi colori, perlopiù tutte le tonalità del grigio e l’uso sporadico del rosso e del bianco, il comparto grafico di FAR sfoggia la costruzione di un mondo credibile, estremamente curato ed affascinante nella sua desolazione. A me ha ricordato tanto i dipinti di Simon Stålenhag, artista svedese che ha ispirato la serie Amazon (troppo spesso sottovalutata) Tales from the loop. Stålenhag inserisce in mondi rurali dei grossi macchinari abbandonati e consumati dal tempo, che sembrano appartenere ad un’epoca lontana, ma ancora funzionanti. 

Un dipinto di Simon Stålenhag

L’analogia non si ferma qui perché la serie è stata spesso accusata di essere troppo lenta. Anche FAR è lento, il nostro veicolo è pesante e per prendere velocità ha bisogno di tempo. La monotonia del paesaggio viene spezzata dagli eventi atmosferici (pioggia, vento, neve, grandine, nebbia) che sono resi molto bene e il passaggio dall’alba al giorno e dal tramonto alla notte sono qualcosa di meraviglioso. Il gioco non ha nessun tipo di cut scene, tutto avviene senza soluzione di continuità. La telecamera spesso si apre su paesaggi enormi a sottolineare la maestosità della natura contro l’insignificante dimensione dell’uomo per poi tornare all’interno del nostro veicolo. Anche noi potremo gestire lo zoom manualmente sia in avanti per cogliere dei dettagli, che indietro per godere della spettacolare vista. Molto spesso il nostro viaggio sarà accompagnato solo dai suoni del vento, i cigolii dei meccanismi, gli sbuffi di vapore. Ma quando si inserisce la colonna sonora, è allora che il viaggio decolla prepotentemente grazie ad uno stile minimale che prende spunto dal jazz.

si viaggiare…

Tra i momenti più belli del gioco annovero sicuramente quelli in cui venivo spinto dal vento e potevo lasciare da parte le preoccupazioni di dover mettere il carburante, accendere il motore e dare sfiato al vapore. Uscire dalla stiva e salire sul ponte ad osservare il panorama, ascoltare il rumore del vento. Semplicemente andare e godermi il viaggio. Una vera sensazione di leggerezza, pura poesia per lo spirito, rigenerazione dei sensi. Questo dualismo tra il dover avere tutto sotto controllo o lasciarsi invece trasportare dall’universo ci fa riflettere su come due filosofie di vita tanto diverse possono convivere, anzi devono farlo. Come nella vita reale ci sono dei momenti tranquilli in cui si va a vele spiegate e ci si lascia trasportare, in altri bisogna fermarsi per risolvere i problemi cercando di tenere tutta la baracca in piedi. Ma la vera sorpresa del gioco è che non si empatizza con il personaggio di Lone bensì con il veicolo. Il veicolo è un’allegoria del nostro corpo. Bisogna averne cura, potenziarlo, fargli compiere un viaggio che inevitabilmente lo logorerà. Quando ad un certo punto del gioco si sono rotte le ruote ed in un hangar ho dovuto toglierle per sostituirle con delle nuove e più efficienti, ho avuto un tutto al cuore. Mi ha fatto ricordare quando un paio di anni fa sono finito sotto i ferri per un importante intervento chirurgico. Ora una parte di me è stata buttata come le vecchie ruote della locomotiva ma il mio viaggio continua. Con un pò di solitude in più.

Adatto a: chi ama giochi contemplativi e allegorici come JourneyNon adatto a: chi pensa che la solitudine sia solo negativa

VOTO: 8,5

Giocato e finito su PC in 4 ore – disponibile per PlayStation 4, Xbox One, Microsoft Windows, Mac OS, Nintendo Switch

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DARQ

WLAD E L’INTERPRETAZIONE DEI SOGNI

Per raccontare Darq non si può prescindere dal raccontare la storia del suo autore. Chi lo fa (o lo ha fatto) non può giudicare correttamente il suo lavoro. Wlad Marhulets nasce in Polonia e si interessa alla musica a 16 anni, dopo la visione del film The Red violin (Il violino rosso, 1998) di François Girard con la colonna sonora del premio Oscar John Corigliano. Nonostante non sapesse nulla composizione e l’invito a lasciar stare la musica perché ormai troppo “vecchio”, Wlad decide di iscriversi ad una scuola. Dopo solo quattro anni spedisce una pesante busta piena delle sue composizioni a John Corigliano che a sorpresa lo chiama ad una audizione alla Juilliard School di New York. È così che a venti anni lascia la Polonia, la sua famiglia, gli amici e senza sapere una parola di inglese e con 300 dollari in tasca arriva a New York. Qui vince una borsa di studio e diventa uno dei tre studenti di Corigliano. Dopo il diploma si trasferisce a Los Angeles dove inizia subito a lavorare nella composizione di colonne sonore per film indipendenti e, grazie alla sua preparazione classica, continua anche a scrivere concerti per la Chicago Lyric Opera. Almeno stavolta a Los Angeles sapeva l’inglese, anche se sempre con pochi dollari in tasca.

Un recente e commovente thread dall’account Twitter di Wlad

Wlad è sempre stato un ragazzo creativo. Anche se aveva scelto la musica come primo strumento per esprimere la sua vena artistica, sentiva che questa gli stava stretta e che non riusciva a tirare fuori il 100% delle sue possibilità. Gli piaceva anche dipingere, disegnare, scrivere e la modellazione 3D. La carriera come sviluppatore nasce per caso, durante una pausa di un mese tra una progetto per un film e l’altro. Scarica quindi Unity e si mette a smanettare senza uno scopo preciso, solo per divertimento. Alla fine della giornata salva la scena che aveva creato e la denomina “Darq” solo perché gli sembrava divertente. Ma presto capisce che il game design completa a pieno le sue aspirazioni artistiche e creative. E per la seconda volta nella sua vita fa un salto nel buio. Non sapeva niente di programmazione, renderizzazione, illuminazione, texture. Niente di niente. Dopo un anno e mezzo passato ad imparare, varie ripartenze, più di 100 ore lavorative a settimana era pronto a lasciare il suo lavoro di musicista e concentrarsi solo sul game design. Anche questa volta va contro i consigli di tutti che gli dicevano di non andare da solo senza un publisher, in un mondo che non conosceva affatto e che poteva far paura a molti. Così rifiuta ben 12 proposte da altrettanti publisher, ma pur di poter prendere le sue decisioni creative in completa autonomia, decide di correre il rischio. Come ha sempre fatto da quando aveva 16 anni quando gli dissero che era troppo tardi per entrare nel mondo della musica, Wlad ha seguito il suo istinto e con tenacia, sacrificio e duro lavoro ha portato a termine il suo primo gioco. Darq esce il 15 agosto 2019 su PC. 

Attenzione all’uomo-trombone

Darq è un sogno lucido, o meglio un incubo lucido. Lloyd è il sognatore che abita in una fatiscente casa in stile vittoriano. Quando si sdraia sul letto e chiude gli occhi il suo corpo trascende e si ritrova in una dimensione onirica ancora più inquietante, popolata da raccapriccianti creature semi-umane, arti mutilati e mostri mascherati. Pur se sono presenti alcuni jump scare nel gioco, non si può definire Darq un horror vero e proprio. Giocare a Darq è come immergersi nelle recondite pieghe del subconscio del protagonista, regolato da strani meccanismi e da una interazione gravitazionale tutta sua. Lloyd infatti nel sogno ha il potere di camminare sui muri e i soffitti, riuscendo a ruotare la visuale della stanza con un effetto cinematico davvero notevole. È questa la meccanica principale che muove tutto il gioco e che riesce a dare vita ad un level design originale ed unico. Attraverso il cambio di prospettiva infatti si può accedere a stanze, pulsanti od oggetti altrimenti irraggiungibili. Ogni livello può essere letto come una una serie di escape room collegate tra loro. Uscire vivi dall’incubo è l’obiettivo. Solo l’ingegno, la logica e nascondersi sono le armi a disposizione di Lloyd. All’inizio i livelli sono abbastanza lineari, ma con una curva di apprendimento e di difficoltà ben calibrata, nelle ultime fasi il tutto si complica abbastanza, senza mai però suscitare frustrazione o paura di rimanere bloccati.

Le maschere non sembrano proprio amichevoli con chi non ne indossa una

Essendo un gioco bidimensionale (o meglio 2.5D) il protagonista si può muovere solamente a destra e sinistra, anche se attraverso l’uso di leve (e con uno stratagemma visivo davvero d’effetto) in alcuni punti specifici ci si potrà muovere anche in avanti e indietro. Oltre a dover risolvere enigmi ambientali, ci saranno vari puzzle da decodificare, alcuni di questi anche legati alla velocità di esecuzione. Infatti Lloyd oltre a camminare potrà correre o assumere una postura furtiva. Inoltre può prendere gli oggetti da tenere in un inventario ed usarli nel momento opportuno. Alcuni enigmi, pur se non proprio originali, sono sempre comunque ben implementati nel contesto narrativo e mai piazzati a caso solo per prolungare l’esperienza. Il gioco manca totalmente di narrazione, non ci sono dialoghi, commenti o testi di alcun tipo, come nei lavori di Playdead (Limbo e Inside). Tutto risulta molto ermetico ed al giocatore viene lasciato il compito di immaginare una possibile contestualizzazione. Ma d’altronde questa è la natura dei sogni, inspiegabili ed inaccessibili.

La rotazione dello scenario vale il prezzo del biglietto

La direzione artistica è molto ispirata, anche se non proprio originale visto che sia il personaggio che le ambientazioni ricordano in tutto e per tutto La sposa cadavere di Tim Burton. Lo stile vittoriano reso lugubre dalle fredde tonalità grigie virate al blu è particolarmente riuscito. L’illuminazione ed il gioco di ombre riescono a creare un’atmosfera misteriosa ed angosciante. Ognuno dei sette livelli che compongono il gioco principale (a cui si aggiungono il DLC gratuito The Tower già uscito ed un altro denominato The Crypt previsto entro il 2020) è ambientato in uno specifico luogo che va da uno splendido teatro, ad un treno; da un ospedale ad una stazione della metropolitana. Il sound design, curato da Bjorn Jacobsen (Cyberpunk 207, Hitman) è davvero eccellente sia per varietà che per qualità. Il gioco invece non ha una colonna sonora vera e propria se non per i titoli di coda, ma vale veramente la pena arrivare alla fine per ascoltarla. Indovinate un po’ chi l’ha composta?

Arti amputati usati per muovere i meccanismi dell’incubo

Darq è un gioco fatto con il cuore, quasi da una sola persona, che ha voluto fare l’ennesimo salto nel buio pur di seguire le sue passioni e mettersi in gioco ancora una volta. Senza scendere a compromessi con il mercato pur di rispettare la sua visione artistica. Ed ha avuto ragione. A volte pecca di ingenuità (le fasi stealth sono abbastanza inutili ed alcuni puzzle già visti) ma è un gioco che ti tira dentro il suo mondo onirico per qualche ora e non ti lascia finché non arrivi alla fine. Molti hanno criticato la sua brevità, ma quanto volete che duri un incubo? Wlad affronta le sue paure ad occhi aperti, dimostrandoci che con il duro lavoro, l’impegno, il sacrificio, il trial and error ed un pizzico di fortuna, si può riuscire a svegliarsi dagli incubi e tornare a rivedere le stelle. 

Adatto a: amanti di Tim Burton e PlaydeadNon adatto a: chi ha paura di non svegliarsi dagli incubi

VOTO: 8

Giocato e finito su PC in 4 ore compreso il DLC The Tower – disponibile per PlayStation 4, Xbox One, Microsoft Windows, Linux, Classic Mac OS

LITTLE ORPHEUS

Assaggiamo il nuovo cocktail di The Chinese Room. Bello da vedere ma non troppo buono da bere.

Dici The Chinese Room e subito la tua mente (almeno quella dei videogiocatori più smaliziati) associa questa raffinata software house inglese ad un certo tipo di videogiochi. Sono stati proprio loro infatti ad inaugurare il filone dei cosiddetti walking simulator nel 2012 con Dear Esther, anche se in realtà il gioco nasceva già nel 2008 come mod di Half-Life 2. Con questo titolo rompevano letteralmente gli schemi abituali dei videogiochi, fatti principalmente di sfida, velocità e violenza. In Dear Esther come anche nei successivi titoli Amnesia: a machine for pigs (2013) e Everybody’s gone to the rapture (2015) il gameplay viene piegato alla necessità di raccontare una storia. L’uso della visuale in prima persona, la lentezza del personaggio che può solo camminare e guardarsi intorno, la mancanza quasi totale di interattività, l’importanza primaria della colonna sonora orchestrale, la narrazione e la costruzione di personaggi psicologicamente complessi e fragili, tematiche non proprio leggere sono da sempre le basi portanti su cui si basavano i lavori di The Chinese Room. Poi arriva Little Orpheus e ti chiedi ma che cavolo è successo?

Innanzi tutto bisogna dire che lo studio di Brighton nel 2018 è passato sotto l’ala di Sumo Digital Ltd. perdendo di fatto l’indipendenza, almeno economica. Inoltre il gioco è uscito solo su Apple Arcade. Poi secondo le parole del creative director e fondatore Dan Pinchbeck hanno voluto fare un gioco “vibrante e forse più leggero delle cose che abbiamo fatto prima […] pur mantenendo la narrazione e quel senso di immaginazione e cercando di creare un sorprendente mondo, solo un po’ meno dark”.

Per spiegare in poche parole Little Orpheus potremmo provare ad immaginarlo come un cocktail:

tre parti di Limbo e Inside di Playdead

due parti di Viaggio al centro della terra di Jules Verne

una parte di Jurassic Park

colmare con ghiaccio direttamente da L’era glaciale

qualche goccia di Journey e Pinocchio

shakerare tutto e decorare con falce e martello

Il cambio di paradigma in questo gioco è tanto inaspettato quanto spiazzante.

Il compagno Ivan Ivanovich è il protagonista di questo platform 2.5D. Incaricato nel 1962 di partire con una navicella/trivella in una missione per colonizzare il centro della terra, si ritroverà dopo tre anni di peregrinazioni a raccontare la sua incredibile storia al generale terribile Yurkovoi. Tutta la parte narrativa infatti si svolgerà sotto forma di interrogatorio/dialogo tra Ivan e il generale. Sia attraverso dei filmati introduttivi al capitolo, che durante l’azione vera e propria nel livello i due non si risparmiano in scambi di battute esilaranti e surreali. Il gioco è pensato come una serie televisiva divisa in otto mini episodi, ognuno ambientato in uno specifico e assai variegato scenario. Ogni episodio inizia con una fantastica sigla animata che ben riassume lo spirito avventuroso del gioco, si chiude con il classico cliffhanger che contribuisce in maniera azzeccata a creare l’atmosfera giusta per voler andare avanti ed infine scorrono i titoli di coda. Ivan non ha proprio il classico fisico da astronauta o da eroe. Infatti è piuttosto goffo e ha pure imbrogliato per passare gli esami di ammissione alla missione. Ha anche origini molto umili, figlio di un orologiaio. Ma quello in cui eccelle è sicuramente la dialettica, l’inventiva e l’immaginazione.

Gli scenari in cui si muove Ivan sono a livello visivo quanto di meglio si sia mai visto in un gioco su dispositivi iOS. Colori vibranti, illuminazione superba, animazioni strepitose e fluide, profondità visiva a tratti sbalorditiva tanto che a volte viene la voglia di provare a muoversi nel mondo tridimensionale per andare ad esplorare gli stupendi ambienti. Davvero un peccato che Ivan si possa muovere solo bidimensionalmente. La colonna sonora è davvero ben scritta, con motivi di ispirazione sovietica. Le musiche partono nei momenti salienti del gioco andando ad enfatizzare situazioni concitate o più calme. Il doppiaggio dei due protagonisti in un inglese dal forte accento russo è quanto mai riuscito e riesce ad immergere ancora di più il giocatore nel contesto filosovietico. E poi la narrazione è veramente di ottimo livello, con continue metafore che condannano il capitalismo ed elogiano la grande madre Russia. Basti citare questa frase di Ivan “Quando qualcuno soffre soffriamo tutti, generale“.

Tutto bene quindi? Purtroppo no. Se The Chinese Room aveva già dimostrato con le produzioni precedenti di eccellere nel campo della narrativa, della grafica, della colonna sonora, non altrettanto si può dire per quanto riguarda il gameplay, cosa in cui effettivamente non si erano mai addentrati. Purtroppo impersonare Ivan non regala soddisfazioni. Non c’è il reale senso di controllo del personaggio. I salti sembrano semplificati e anche effettuandone uno con enorme anticipo o addirittura ritardo non si rischia la morte. I pochi enigmi ambientali risultano piuttosto banali e semplificati. Non si ricorre quasi mai al backtracking rendendo la progressione molto lineare e facilitata. Anche le fasi stealth non regalano particolari emozoni. Insomma il senso di sfida è quasi messo in disparte ma in questo tipo di gioco non credo abbia molto senso. Ho portato a termine il gioco in due sessioni da un paio d’ore ciascuna e sarò morto si e no dieci volte in totale. Se penso a Limbo, a cui Little Orpheus deve sicuramente tantissimo, il trial and error era parte integrante del gameplay. Non era fastidioso o troppo punitivo ma andava affrontato per riuscire a rendere credibile il personaggio. Qui invece si è cercato di rimuovere totalmente la sfida, ma così facendo, si è svuotato di contenuto un contenitore invece molto ben realizzato. Un vero peccato perché sarebbe potuto essere un vero gioiellino. Resta comunque un titolo da provare e che vale sicuramente il prezzo di abbonamento ad Apple Arcade per un mese.

Adatto a: un pubblico casual che vuole godersi
una serie televisiva avventurosa senza impegnarsi troppo
Non adatto a: chi ha amato i vecchi The Chinese Room

VOTO: 7

Giocato e finito su macOS in 4 ore – disponibile su Apple Arcade

LIMBO

LA PAURA FA CRESCERE

Di Gianni Mancini 01/02/2019

Perché scrivere oggi di un gioco uscito nel 2010 e di cui quasi tutto il mondo ha parlato? Semplice, perché è più di un mero videogioco.

Dietro questa piccola perla videoludica si cela Arnt Jensen e il suo studio Playdead con sede a Copenaghen, Danimarca. Arnt per anni lavora nel settore dei videogiochi come illustratore nello studio IO Interactive famoso per la serie Hitman. All’inizio dell’avventura è felice perchè viene pagato per fare quello che gli piace: disegnare. Ma il suo entusiasmo svanisce quando si trova a non poter più esprimere la sua voglia di sperimentare. Frustrato dalla ripetitività e dal metodo di lavoro che non permetteva di andare oltre a percorsi stabiliti, decide di prendere in mano una penna nera e comincia a disegnare per se stesso. Ed è in questo momento che nasce Limbo.

I suoi ricordi d’infanzia trascorsi nella campagna danese saranno lo scenario perfetto per l’ambientazione del suo primo gioco: la foresta, le caverne, le fiabe dei fratelli Grimm e i Moomins di cui Arnt era un grande appassionato. La paura per il buio, l’ignoto, i ragni, le ombre saranno al centro della concept art di Limbo. Secondo alcuni esperti la paura nelle fiabe è un formidabile strumento di iniziazione, attraverso cui i bambini imparano che il male esiste, che bisogna fronteggiarlo, che è necessario staccarsi dalla famiglia per trovare una propria identità, che le buone azioni prima o poi vengono premiate.

L’avventura ha inizio senza nessuna introduzione di alcun genere. Il piccolo protagonista si sveglia in una foresta molto buia, i raggi del sole a malapena riescono a filtrare attraverso la fitta vegetazione e una nebbia onnipresente. Ad accompagnare i primi passi del bambino solo i suoni di una natura selvaggia ed ostile. La morte arriva subito in questo titolo ed è quasi inevitabile. Infatti il piccolo protagonista, solo ed impaurito, dovrà vedersela con trappole appuntite, tagliole, rocce rotolanti, ed un ragno gigante che lo accompagnerà per un po’, senza contare il fatto che non ha ancora imparato a nuotare, quindi dovrà evitare l’acqua o annegare inesorabilmente.  Il gameplay è ridotto all’osso: si può solo correre, saltare ed interagire con un oggetto. Le animazioni sono molto curate e dettagliate e la fisica è incredibilmente realistica. Quest’ultima avrà un ruolo di primo piano nella risoluzione dei vari enigmi: vasi comunicanti, magneti, leve, piani inclinati, ecc. In questo platform bidimensionale a scorrimento orizzontale si muore spesso (anche in maniera abbastanza splatter!) e questo trasmette volutamente un senso di frustrazione e impotenza ma allo stesso tempo l’ignoto ci spinge a volerci inoltrare ancora di più nella cupezza dello scenario. Bisogna imparare dai propri errori per andare avanti.

Il gioco è diviso in 39 capitoli, che poi sono anche i vari, per fortuna abbondanti, checkpoint. I puzzle ambientali andranno affrontati diverse volte prima di riuscire a superare alcuni punti, in quanto è richiesta una precisione ed una tempistica quasi maniacale. Bisogna molto spesso tornare sui propri passi per riuscire a superare alcuni dei punti ostici del gioco. Comunque sia in tre o quattro ore si arriva alla conclusione, a patto di non voler raccogliere tutte le undici sfere luminose (bonus) sparse nei capitoli e molto ben nascoste (io sono riuscito a trovarne solo 5!)

Dal nord Europa un piccolo e cupo capolavoro che ha segnato la storia dei giochi indie e non solo. Se ancora non lo conoscete, provatelo e non ve ne pentirete.

PUNTI DI FORZAPUNTI DEBOLI
bianco e nero d’atmosferaabbastanza breve
inquietante e pauroso al punto giustoa volte un pò frustrante e ripetitivo
puzzle intelligenti

VOTO: 8,5

 Giocato su PC per 4 ore – disponibile per Android ·Microsoft Windows ·macOS ·iOS ·Linux ·Xbox 360 ·Xbox One ·PlayStation 4 ·   PlayStation Vita · PlayStation 3 · Nintendo Switch

BURNING DAYLIGHT

RESTIAMO UMANI

Di Gianni Mancini 15/05/2019

Partiamo subito col dire che non si tratta di un gioco vero e proprio ma di una “prova d’autore”, un pò come lo sono i cortometraggi della serie targata Netflix Love, death & robots.  In questo caso parliamo di autori al plurale, un team di ben 12 studenti dell’università danese The Animation Workshop coadiuvati dai relativi professori. Bisogna quindi valutare il lavoro svolto considerando il contesto d’essai non commercializzabile. L’impressione  che si ha di trovarsi davanti a una demo, con evidenti problematiche tecniche e bug, non deve assolutamente scoraggiarci dal vivere e approfondire il viaggio verso il vero lato della vita.

Tutto inizia con il buio totale ed un punto di luce bianca all’orizzonte. Quella fonte luminosa sono i nostri occhi che si sono riaperti ma purtroppo resi vitrei e incapaci di vedere la realtà  disturbante da cui siamo circondati a causa dell’abuso di visori indossabili. Ci troviamo in compagnia di corpi senza vita ammassati in una specie di discarica dove i neon rossi e il cemento grezzo non fanno che aumentare il senso di solitudine. Siamo nudi, infreddoliti, ci muoviamo a fatica, la nostra schiena incurvata probabilmente dall’uso costante di schermi. Delle gru robotiche spostano i corpi come in un centro di autodemolizione. In questa gigantesca fabbrica chiamata Nutriman si produce cibo frantumando i corpi delle persone morte.  Il viaggio salvifico, rilevatore e in controtendenza inizia proprio da qui.

It’s not the right choice, it’s the ONLY choice.

Il mondo distopico di Burning daylight è ispirato sicuramente da cinema e letteratura. Visivamente parlando Blade runner ha un ruolo di primo piano. La Los Angeles del 21° secolo immaginata da Ridley Scott nel 1982 non è molto lontana dalla città con schermi pubblicitari perennemente in onda, i bassifondi affollatissimi, i venditori multietnici di cibo di strada, gli appartamenti cubicoli e i quartieri a luci rosse del gioco. Dal punto di vista letterario i rimandi a Il mondo nuovo di Huxley e 1984 di Orwell sono abbastanza evidenti: monopolio, videosorveglianza, annullamento della privacy, sviluppo delle tecnologie della riproduzione, controllo mentale.  Ad un certo punto del gioco il protagonista ritroverà un S.A.R.A. acronimo di Special Augmented Reality Assistant (gioco di parole ironicamente molto vicino a SIRI e con la stessa voce femminile non a caso!). Subito dopo averne ricaricato la batteria il mondo vuoto, sporco e triste si colorerà con proiezioni olografiche coloratissime che andranno a coprire la povertà della megalopoli. Per proseguire nel viaggio avremo però a questo punto bisogno di moneta virtuale (rimando anche questo alla sempre più onnipresente ludicizzazione delle nostre vite fatte di raccolte punti e livelli). Un metodo per guadagnare velocemente e facilmente ci verrà fornito da una voce diegetica pubblicitaria che ci suggerirà di malmenare un ologramma di ciliegia. PUNCH PUNCH PUNCH: la violenza gratuita e il bullismo vengono rappresentati in questo modo, anche contro la nostra volontà siamo costretti ad usare la violenza per proseguire e raccogliere monete.

Fin qui abbiamo parlato dei riferimente letterari e cinematografici dai quali Burning Daylight ha tratto le sue tematiche. Ma è evidente anche un chiaro ed esplicito tributo al mondo dei videogiochi, in particolare alla produzione di Playdead Studios di Limbo (qui la mia recensione) e Inside soprattutto per l’ermetico sviluppo delle storie. Anche il gameplay può richiamare i due giochi sopra, tranne per il fatto che in Burning Daylight non c’è la morte mentre nelle produzioni Playdead è una componente predominante. Il protagonista del lavoro di Animation Workshop, quindi il giocatore, cerca solo di interpretare il mondo in cui si ritrova e lo fa prendendosi il tempo necessario. Ci sono pochissimi enigmi ambientali e tutti di facilissima risoluzione. E’ un percorso obbligato verso un finale che si spera farà capire al giocatore che un tempo eravamo il soggetto della nostra vita, oggi purtroppo siamo diventati un oggetto.

Adatto a: chi ama le atmosfere distopiche (ma neanche troppo)Non adatto a: chi cerca un gioco nel classico termine della parola

VOTO: 7,8

Giocato e finito su PC  per 1 ora – disponibile gratuitamente per Microsoft Windows